L'evoluzione delle istituzioni per un'azione collettiva

Una terza via per gestire le risorse comuni: la gestione civica del bene attraverso istituzioni di autogoverno.

E’ difficile dire quando Elinor Ostrom abbia iniziato a studiare il problema delle azioni collettive con particolare riferimento ai common-pool resources, qui intesi come un sistema di risorse naturali in cui sia eccessivamente costoso (anche se non impossibile) l’esclusione nell’uso di potenziali beneficiari. Si può dire che lo abbia fatto da sempre o, almeno, da quando ha conosciuto il suo maestro, nonchè marito, compagno di studi e di vita, Vincent Ostrom.

La domanda a cui la Ostrom ha cercato di trovare risposta in anni di ricerche riguarda la gestione delle risorse naturali e, più in particolare, come garantire la loro sostenibilità  economica di lungo periodo. Detto quesito si riconnette ovviamente a scelte di regolamentazione, privatizzazione e di tipo più squisitamente politico.
Al problema non è mai stata data una risposta univoca, né in campo accademico, né tanto meno in quello dei conflitti ideologici per eccellenza: la politica. Alcuni articoli accademici sulla cosiddetta ” tragedy of the commons ” raccomandano il controllo statale di queste risorse al fine di salvaguardarne la sopravvivenza. Altri propongono, invece, di privatizzare detti beni in modo da garantirne un uso più efficiente. Le rilevazioni empiriche, tuttavia, suggeriscono che né lo stato, né tanto meno il mercato sono in grado di assicurare, sempre e in tutte le circostanze, una sostenibilità  di lungo periodo e un uso produttivo delle risorse naturali. In più, la Ostrom, nel suo lavoro, cerca di andare oltre l’annoso dibattito, che vede il pubblico dimenarsi contro il privato e prospetta una terza via. Questa si concreta nella definizione di istituzioni nuove, appositamente create e governate direttamente dagli stessi cittadini, aventi il compito di gestire i cosiddetti commons.

Un respiro innovativo: la terza via della Ostrom

Per apportare un vento di innovazione si deve sempre partire da uno studio approfondito del passato. La Ostrom lo sa e nel suo testo cita e critica le tre teorie utilizzate dalla economia e dalla scienza politica classica per analizzare e risolvere il problema dei beni comuni. Queste sono: “La tragedia dei beni comuni” di Garrett Hardin; Il dilemma del prigioniero, concettualizzato come un gioco non cooperativo in cui tutti i partecipanti hanno completa informazione; ” La logica dell’azione collettiva” di Mancur Olson (1). Partendo da queste premesse, il premio Nobel Elinor Ostrom prospetta una terza via: la gestione civica del bene attraverso istituzioni di autogoverno. Si approda cosìa un approccio nuovo in cui si afferma la capacità  degli individui di districarsi tra i vari tipi di dilemma in modo diverso a seconda delle circostanze di contorno e delle caratteristiche sia interne che esterne al gruppo.

A sostegno della propria teoria, la Ostrom adduce diversi case studies. Si tratta di modelli di governo e gestione dei beni collettivi che si sono dimostrati alternativamente vincenti e, quindi, capaci di evitare la ” tragedia dei beni comuni ” o, al contrario, fallimentari. Dall’analisi di questi casi si cerca di apprendere nuovi possibili metodi di risoluzione del problema, dai quali partire nel fine ultimo di formulare, anche con l’ausilio di analisi ulteriori, una nuova e migliore teoria dell’azione collettiva.

La teoria della Ostrom denota un respiro innovativo e lo si capisce fin da subito. In particolare, dal confronto che l’autrice stessa istituisce tra la propria teoria e quella di Keplero in astronomia (2). La scuola classica, con riferimento al problema dei commons, è stata, negli anni, troppo pessimista in merito alla capacità  della collettività  di auto-organizzarsi e poco attenta alla rispondenza tra teoria e verifica empirica. Proprio partendo da questo assunto, la Ostrom adotta un approccio di tipo empirista e analizza casi diversi di autogoverno dei beni comuni nel tentativo di identificare i fattori di successo o di insuccesso di queste particolari azioni collettive.

Lo studio viene peraltro portato avanti utilizzando un metodo particolare: quello dei biologi. Si considerano cosìorganismi semplificati, su scala ridotta, al fine di studiare i processi al loro interno. In questo senso, si prendono in considerazione CPRs (common pool of resources) di dimensione limitata, localizzati in un solo paese e coinvolgenti gruppi di individui che variano dai 5, ai 15, soggetti, strettamente dipendenti dai ritorni economici dei CPRs. Vengono quindi analizzati casi di villaggi di pescatori, zone di pascolo, bacini idrografici, sistemi di irrigazione, foreste comunali, e simili.

Ma cosa rende l’autogoverno un ” successo ” ?

Dall’esame ed analisi di questi dati si sviluppano una serie di congetture razionali su come sia possibile che alcuni gruppi di individui siano in grado di organizzarsi perfettamente, e per un tempo ragionevolmente lungo, in forme di auto-governo mentre altri non siano in grado di farlo. Si cerca a questo punto di definire le caratteristiche delle istituzioni che hanno avuto successo e di indicare quali sono gli incentivi che fanno sìche i partecipanti continuino ad impiegare tempo ed energia nell’intento di governare e gestire il loro patrimonio comune. Comparando le situazioni di successo e quelle di insuccesso, si prova poi ad identificare i fattori, interni ed esterni, che possono impedire l’esprimersi delle capacità  degli individui di autogovernarsi.

Ne viene fuori che è possibile identificare le similitudini che hanno permesso alla forma organizzativa dell’autogestione di funzionare. La prima di queste consiste nella presenza di un ambiente esterno instabile e complesso. A quest’incertezza si contrappone, però, una stabilità  nel tempo delle popolazioni ivi abitanti: si tratta di individui che hanno condiviso il passato e che si sentono accomunati da un unico destino, sicché il loro tasso di sconto nei confronti del futuro risulta essere particolarmente basso. In simili circostanze, norme di buon comportamento si sono formate ed evolute all’interno delle società , facendo sìche gli individui siano in grado di vivere, in stretta interdipendenza gli uni dagli altri, senza che ciò comporti l’insorgere di conflitti. In più, il convivere per generazioni ha permesso il formarsi di una buona reputazione e di relazioni di fiducia tra i diversi partecipanti al vivere sociale. Un’altra caratteristica che sembra accomunare i casi di successo dell’azione collettiva è la presenza di gruppi abbastanza omogenei, in cui non vi sono elementi – quali asset, abilità , cultura, etnia – che possano dividere in maniera significativa gli interessi degli individui appartenenti al gruppo stesso. Ancora, in tutti questi casi, il sistema della risorsa risulta sostenibile nel tempo e le istituzioni avere la caratteristica – sottolineata da Kenneth Shepsle in alcuni suoi studi – di evolvere nel tempo, in concomitanza con i cambiamenti dell’ambiente esterno e sempre in accordo con le regole collettive e costituzionali della società . In tutti gli esempi riportati, infatti, le cosiddette regole operative sono specificatamente definite e capaci di tener conto dei peculiari attributi dell’ambiente fisico, culturale, economico e politico di riferimento.

Nonostante la dovuta diversità  delle regole, è comunque possibile definire dei criteri o principi che caratterizzano istituzioni di CPRs ” robuste ” . Elinor Ostrom, in particolare, ne individua sette; più un ottavo che vale in casi più complessi ed estesi. Detti principi sono:

1. La chiara definizione dei confini. Gli individui e le famiglie, che hanno il diritto di prelevare determinate unità  della risorsa comune, debbono essere chiaramente identificati e lo stesso CPR deve essere esplicitamente definito. Questo serve a far sìche coloro che contribuiscono alla gestione del bene comune abbiano la certezza che i loro sforzi non saranno vanificati dall’azione di outsiders né saranno permessi comportamenti di free-ride.
2. La congruenza tra le regole di appropiation e provision, da una parte, e le condizioni locali, dall’altra. Le regole, sia di approvvigionamento che di fornitura del bene comune, debbono essere specifiche a seconda dell’ambiente che disciplinano. Per questo motivo, è necessario stabilire normative diverse per sistemi diversi (è il caso degli huertas spagnoli).
3. La presenza di un accordo in merito alle regole collettive. Quest’ultime sono qui intese come quelle norme che definiscono le modalità  con le quali vengono messe in essere le politiche di gestione del bene comune. Perché l’autogoverno funzioni, è necessario che la maggior parte degli individui, su cui si esprimono le regole operative, abbiano la possibilità  di modificare dette norme, anche allo scopo di adeguarle alle specificità  di contesto e ai cambiamenti sistemici che intervengono nello stesso. Il fatto che le regole siano giuste non assicura, comunque, che queste saranno sempre rispettate. Bisogna, quindi, dare esecuzione all’accordo attraverso un’opera di enforcement e investire in attività  di monitoraggio e sanzione. Ciò ci riconduce ai due principi successivi:
4. Il monitoraggio. Debbono essere implementati controlli e sistemi di audit. In più, i membri della collettività  debbono essere responsabili (accountable) sia nei confronti dei controllori che dell’intera comunità .
5. La presenza di un sistema di sanzioni graduate. Deve essere altamente probabile la punizione, seppur graduata, per chi violi le regole operative. Va qui sottolineato che – come si evince dall’analisi empirica – istituzioni robuste presentano spesso un sistema di monitoraggio e sanzione che non viene esternalizzato dalla società  ma che resta, al contrario, nelle mani degli stessi partecipanti. Sorprendentemente, inoltre, le sanzioni iniziali risultano abbastanza basse. Si può parlare forse di quello che Margaret Levi, nel 1988, definiva una quasi-voluntary compliance, nel senso che il rispetto della regola avviene quasi senza coercizione, bensìattraverso il cosiddetto contingent behavior. Un altro elemento importante è che il costo del monitoraggio deve essere basso, onde evitare – come analizzato ad esempio da Jon Elster – che il costo della punizione sia maggiore per chi punisce anziché per chi è punito. Detto costo si è rivelato particolarmente basso in molti dei casi di successo analizzati, in cui talvolta (irrigatori in Spagna, villaggi di pescatori in Giappone) si è arrivati persino ad un monitoring by-product; quest’ultimo da intendersi come un sistema di monitoraggio per cosìdire automatico, nel senso che deriva dalle stesse modalità  di utilizzo del bene. Un’ulteriore caratteristica da sottolineare è che solitamente il membro della società  che effettua attività  di monitoraggio ne riceve un’approvazione sociale e talvolta ottiene anche dei benefici privati. D’altra parte, colui che ha infranto la regola ne perde in status e prestigio. In conclusione, una volta che i membri della collettività  si siano impegnati in un contingent self-commitment, allora questi saranno motivati a monitorare essi stessi il comportamento degli altri membri (mutuo monitoraggio, peer review).
6. La definizione di un chiaro e poco costoso meccanismo di risoluzione delle controversie.
7. Il riconoscimento del diritto di auto-organizzarsi.
8. La presenza di nested enterprises. Coloro che si appropriano o che utilizzano la risorsa comune, i fornitori, i controllori, l’esecutivo, l’organo di risoluzione delle controversie e colui che esercita la governance debbono essere tutti organizzati attraverso strati multipli di imprese o enti organizzati su più livelli.

Una possibile applicazione estensiva della teoria

Per concludere, vale la pena sottolineare che, date le similarità  tra molti problemi connessi ai CPRs e altri relativi alla fornitura di beni collettivi di scala ridotta, i risultati dell’analisi possono essere utilizzati all’interno della discussione – peraltro sempre più accesa nel nostro Paese – avente a oggetto le formule organizzative e di gestione dei beni pubblici locali. Indipendentemente, infatti, dalla modalità  di organizzazione di detti beni (avvenga essa attraverso agenzie esterne, imprese, autorità  centrali o cittadini auto-organizzati) si tratterà  comunque di azioni collettive che, in quanto tali, devono aver a che fare con problemi comuni quali il free-riding, i problemi di commitment, l’organizzare dell’offerta, i problemi di monitoraggio e sanzione.

(1) The logic of collective action: Public Goods and the Theory of Groups, Mancur Olson, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 1965.
(2) La limitazione delle forme geometriche a forme perfette (quadrato, cerchio, triangolo) ha osteggiato gli sviluppi dell’astronomia fino al momento in cui Keplero ha rotto i confini dell’astronomia classica affermando che le orbite di Marte sono ellittiche.
(3) Per tasso di sconto si intende il diverso valore che gli individui attribuiscono ai benefici che essi possono ottenere nell’immediato futuro rispetto a quelli che si presenteranno solo negli anni a venire. In tal senso, si ” scontano ” i benefici che si proiettano su un orizzonte temporale di lungo periodo. Detto tasso varia a seconda dei casi. Ad esempio, esso risulterà  maggiore qualora gli individui ritengano che i benefici futuri saranno goduti dai loro figli o inferiore qualora i sacrifici imposti alle generazioni presenti, a vantaggio di quelle future, mettano a repentaglio la sopravvivenza delle prime.
(4) Vedi Shepsle, K. A. 1989. Discretion, Institutions, and the Problem of Government Commitment. Working paper, Cambridge, Mass.: Harvard University, Department of Government. Vedi anche Shepsle, K. A. 1989. Studing Institutions. Some Lessons from the Rational Choice Approach. Journal of Theoretical Politics 1:131-49.
(5) Vedi Levi, M.1988. Of Rule and Revenue. Berkeley: University of California Press.
(6) Vedi Elster, J. 1989. The Cement of Society. A Study of Social Order. Cambridge University Press.