Protezione della proprietà  e tutela dell ' ambiente

La Corte europea indirizza verso un sistema di governance che prescinda dall ' aspetto proprietario

La sentenza

La pronuncia in esame trae origine dalla dibattuta questione nazionale relativa alla definizione della natura giuridica, pubblica o privata, delle valli da pesca della Laguna di Venezia: «terreni con corpi idrici delimitatati da argini » su cui è praticata da secoli una particolare forma di itticoltura.
L’importanza della questione risiede nella portata storica della sent. 3665/2011, con cui le Sezione Unite della Corte di Cassazione, nell’affermare la demanialità  di tali aree, hanno per la prima volta recepito a livello giurisprudenziale la nozione di bene comune.
L’encomiabile sforzo innovatore della Suprema Corte è divenuto tuttavia ben presto oggetto di serrate critiche ad opera di quella parte di dottrina attenta a denunciare l’utilizzo strumentale, e contraddittorio, della categoria di nuova formulazione, introdotta al solo fine di corroborare la differente qualificazione demaniale.
Se infatti alla sentenza delle SS.UU. va riconosciuto l’indubbio merito di aver per prima definito « ” comune ” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà , strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini » il bene oggetto di controversia, va anche detto che, riconducendo le valli da pesca nella sfera proprietaria dello Stato, la Cassazione ha di fatto confermato la tradizionale logica dominicale nello stesso momento in cui dichiarava di intendere superarla.
La sentenza Valle Pierimpiè c. Italia, si inserisce finalmente nel solco della contraddizione appena descritta, colmandolo.
All’origine della causa vi è il ricorso con cui la società  agricola Valle Pierimpiè S.p.a., in seguito all’emanazione della sent. 3937/2011 SS.UU. ( ” sentenza fotocopia ” della sent. 3665/2011), lamenta dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la violazione dell’art. 1, Prot. 1, CEDU, per essere stata privata della valle da pesca senza corresponsione di alcun indennizzo, con condanna al pagamento di un’indennità  di occupazione senza titolo dell’area dichiarata demaniale.
Investita del ricorso, la Corte giudica l’ingerenza dello Stato italiano nel diritto di proprietà  della ricorrente conforme ai parametri di legalità  e pubblica utilità  previsti dalla disposizione invocata, in virtù, rispettivamente, della vigenza dell’art. 28 Cod. Nav. e della necessità  di preservare il delicato equilibrio ambientale dei bacini vallivi.
Tuttavia, è nell’ambito del successivo controllo di proporzionalità  tra l’interesse pubblico perseguito e il diritto fondamentale sacrificato, che la Corte europea ravvisa la violazione dell’art. 1, Prot. 1, CEDU, condannando lo Stato italiano al risarcimento del danno patito dalla società  ricorrente.

Il commento

La decisione di Strasburgo poggia su un’attenta valutazione delle peculiari circostanze della fattispecie dedotta in giudizio.
La manifesta sproporzione dell’ingerenza dello Stato nel diritto della ricorrente deriva infatti dalla considerazione della mancata corresponsione di un indennizzo, della condanna, all’opposto, al pagamento di un’indennità  di occupazione, dell’utilizzo del bene per l’esercizio dell’attività  di impresa, nonché del legittimo affidamento generato nella società  agricola dalla titolarità  di un atto di proprietà  ” regolarmente ” rogato da un notaio, dalla puntuale raccolta delle imposte fondiarie, dal consuetudinario riconoscimento ai privati (sin dal XV secolo) di diritti di proprietà  sulle valli da pesca e dalla conseguente tolleranza da parte delle pubbliche autorità .
Tuttavia, a interessare maggiormente in questa sede è un profilo specifico.
Fondamentale è il fatto che, pur condividendo appieno la necessità  di preservare l’ambiente lagunare e la sua destinazione all’uso pubblico (par. 67), la Corte giudichi l’operazione di riconduzione delle valli da pesca al demanio non proporzionata rispetto allo scopo legittimo perseguito.
Pienamente accolta risulta l’argomentazione proposta dalla ricorrente, secondo cui «lo scopo invocato della tutela ambientale avrebbe potuto essere soddisfatto senza che fosse revocato il suo titolo di proprietà , semplicemente assoggettando l’attività  esercitata nella valle alle restrizioni di polizia necessarie » (par. 56).
I giudici di Strasburgo sembrano voler ricordare che, in presenza di commons, l’ansia classificatoria degli ordinamenti nazionali, solitamente placata attraverso la riconduzione del dato bene nelle rispettive sfere demaniali, deve cedere il posto alla più urgente definizione di un adeguato sistema di governance, ossia alla previsione di una serie di restrizioni e doveri (riassumibili nel concetto di vincolo già  noto alla categoria dei beni culturali) posti a carico del soggetto formalmente titolare del bene comune.
La pronuncia esaminata risolve quindi la travagliata vicenda delle valli da pesca, emblematica delle difficoltà  insite nel discorso sui beni comuni, semplicemente suggerendo di guardare altrove. Seppur implicitamente, infatti, dalla Corte europea proviene l’invito – asse portante della teoria dei beni comuni – ad uscire definitivamente dall’alternativa apparente bene pubblico/bene privato, riconoscendo l’irrilevanza dell’aspetto proprietario e focalizzando invece l’attenzione sulla necessaria predisposizione di un rigoroso metodo di gestione; l’esortazione, dunque, a chiedersi non a chi un bene comune appartenga, ma come possa essere tutelato.

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