Ritornare sui termini: il patrimonio nel dibattito sui beni comuni

Patrimonio è un termine che affonda le sue radici in una vasta letteratura all’interno della quale, spesso, assume il significato di: ricchezza comune, bene pubblico, eredità  collettiva, trasmissione generazionale. Inoltre questo termine ci pone di fronte ad alcune questioni centrali: di cosa siamo eredi? Cosa vogliamo conservare? Oppure, al contrario:cosa è indisponibile alla conservazione?
E’ forse ingenuo domandarsi il perché di un rinnovato interesse nei confronti del  patrimonio in un momento di crisi come quello attuale. Non si tratta solo di uno spirito di stampo conservatore ma piuttosto di un forte legame che esso assume all’interno del dibattito sui beni comuni.
Basti pensare, ad esempio, a come, negli ultimi anni, il dibattito nazionale sia stato guidato principalmente da autori come Settis, Montanari e Mattei che, non solo hanno messo in risalto il rapporto imprescindibile che questo concetto ha con la politica, con i processi di privatizzazione della cultura e con le strategie di risanamento del debito pubblico, ma anche con l’importanza di una visione condivisa di ciò che secondo la comunità  e per la comunità  ha un valore.

Chi decide cosa è patrimonio?

Negli ultimi decenni la nozione stessa di patrimonio è deflagrata all’interno di contesti molto diversi e ha assunto categorie variegate (si pensi al patrimonio rurale, immateriale…). Queste nuove classi di patrimonio, se da un lato rendono sempre più difficile definire chiaramente cosa il patrimonio sia, dall’altra mettono in campo una nuova domanda: chi decide cosa è patrimonio e in base a quali strumenti?
Questa prospettiva mette fin da subito in campo una accezione attiva e pragmatica del termine: il patrimonio quindi, in questo senso, si configura come un costrutto sociale in senso ampio ed è soggetta quindi a differenti interpretazioni.

Gli aspetti conflittuali del patrimonio

Cosìdefinito, questo concetto assume, all’interno del dibattito sulla città , un ruolo centrale e fortemente ambiguo, mettendo in evidenza un divario significativo tra progetti istituzionali ed esperienze locali.
L’uso di questo concetto, infatti, all’interno dei processi di rivendicazione di uno spazio da parte di diversi attori locali, manifesta un diritto a prendere parte alle decisioni politiche per la città ,inoltre, permette di mettere in risalto l’attribuzione di valore che viene riconosciuta, da attori diversi e in momenti e modi differenti, ad un luogo o ad un manufatto.
Partendo quindi dall’osservazione dello spazio, non solo nella sua struttura e morfologia, ma anche nelle dinamiche che lo attraversano e nei processi che si definiscono e vi trovano sede, appare chiara la necessità  di tornare a riflettere su alcuni termini, dai significati apparentemente consolidati, ma che assumono un valore diverso a seconda delle persone che li definiscono.
Da qui il rapporto imprescindibile con i beni comuni: chi li definisce come tali? All’interno di quale contesto e secondo quale valore?La presa in cura di uno spazio è un elemento sufficiente per garantirne il carattere pubblico e per esprimerne un valore?

La città  patrimonializza sé stessa: il caso torinese

A Torino, nell’ultimo trentennio, i processi di trasformazione della città , si sono dovuti confrontare da un lato con il lascito imponente della città  fordista e, dall’altro, con le spinte di emancipazione da quel modello di città  ed economia ormai tramontato. Gli spazi dismessi, abbandonati, ferite aperte di un fallimento ormai consolidato, sono diventate quindi un’occasione per ripensare sé stessa e la propria identità . La consapevolezza, la ricchezza e la sicurezza acquisita in quegli anni di crescita economica, la presenza ancora determinante di attori e interessi forti, sono state le condizioni principali che hanno permesso a Torino di ridefinire la propria immagine. Il fatto che questa nuova trasformazione si sia concretizzata proprio all’interno degli spazi depotenziati, creati dalla fabbrica e in suo supporto, non è un caso.
La città  ha valorizzato sé stessa, si è trasformata, riciclata, mettendo in gioco gli spazi della sua tradizione, che nulla hanno a che fare con la città  storica ma piuttosto che afferiscono al suo passato industriale.

Il cambio di paradigma

Oggi però, si assiste ad un cambio di paradigma: a causa dell’ormai innegabile crisi economica, politica e culturale all’interno della quale ci troviamo, gli attori delle trasformazioni sono cambiati. I grandi progetti di trasformazione della città  si sono esauriti e assistiamo sempre più spesso alla realizzazione di diversi movimenti di appropriazione del territorio che prendono forma, in maniera capillare quanto temporanea, generando una nuova geografia della città . Si tratta di esperienze molto diverse tra loro, che hanno però la forza di disegnare un nuovo valore (non solo d’uso, dello spazio urbano): quello rivendicato dalle persone che lo abitano, quello che si progetta all’interno dello spazio stesso, quello che manifesta competenze specifiche nella comunità , che rivendica la capacità  di dare valore attraverso l’uso e non attraverso la conservazione.

Spazi che condensano socialità 

Gli spazi della Cavallerizza Reale e di Mirafiori Sud, che ho osservato e studiato a lungo, possono essere considerati due condensatori sociali. Non sono certo assimilabili per dimensioni, struttura, localizzazione e neppure per i processi in atto. Sono luoghi noti nel dibattito locale, come la Cavallerizza Reale, ma non solo, come dimostra il quartiere di Mirafiori Sud, che sicuramente potrebbe risultare sorprendente per una ricerca sui processi di patrimonializzazione.
Sono entrambi oggetto di politiche urbanistiche istituzionali che, al momento, hanno subito una battuta d’arresto o, nel primo caso, trovato una nuova direzione progettuale (in parte attraverso un processo di privatizzazione). In entrambi i casi però, vi è un riconoscimento implicito o esplicito, talvolta consensuale, talvolta conflittuale, di un carattere patrimoniale del luogo. Queste due esperienze di resistenza che si strutturano nello spazio urbano, nella loro forma, rappresentano la richiesta ad ‘essere coinvolti’ all’interno delle decisioni politiche che vengono prese per quelle parti di città  e, al contempo, ad essere protetti  a fronte di un’implosione del sistema istituzionale di regolazione sociale definitosi nel trentennio precedente.

Un nuovo tipo di patrimonializzazione che mette al centro il valore d’uso dei luoghi

In entrambi gli spazi, gli attori coinvolti (da una parte il Collettivo Assemblea Cavallerizza 14:45, dall’altro la Fondazione di Comunità  di Mirafiori e le associazioni locali) manifestano competenze specifiche, spesso in grado di mettere in risalto nuove possibilità  per quei luoghi e di definirne un nuovo racconto. Sono in grado, attraverso processi di presa in cura dello spazio, di definire nuovi modelli economici, di parlare a persone diverse. Ci si chiede quindi se questi ‘progetti alternativi’ abbiano la forza di creare una nuova struttura del welfare locale, fai da te, a fronte di uno sgretolamento ormai consolidato dei modelli universalistici.

Il Regolamento come strumento di legittimazione delle conflittualità 

Ci si domanda,inoltre, come essi si possano confrontare e se possano trovare uno spazio di dialogo e riconoscimento all’interno del Regolamento dei beni comuni che la Città  di Torino ha approvato l’11 gennaio 2016.
Il Regolamento si pone come un primo passo in avanti nella costruzione di quello che viene definito come modello di amministrazione condivisa. Se da un lato, esso esprime la necessità  ormai evidente di costruire nuovi strumenti per la gestione e regolazione del patrimonio pubblico, dall’altro manifesta anche la volontà  di ridefinire le dinamiche in atto nei rapporti tra amministratori, terzo settore e cittadini, riconoscendo a quest’ultimi competenze e necessità  diverse.
L’intervista che l’assessore Ilda Curti ha rilasciato a Labsus a seguito dell’approvazione del Regolamento, mette in evidenza come il Regolamento rappresenti un primo approccio verso l’istituzionalizzazione dei processi di presa in cura di alcuni spazi pubblici o di eventi urbani e, al contempo, aiuti a costruire uno spazio di legalità  per pratiche che attualmente si pongono come estranee o non regolate dalle norme correnti (street basket in Piazza Crispi, manutenzione delle aiuole da parte di alcuni pensionati, gestione degli orti urbani spontanei).
Cosa succede però nei luoghi del conflitto urbano, dove la presa in cura passa attraverso l’occupazione dello spazio e una richiesta di legittimità , non solo della propria presenza nello spazio, ma anche della rivendicazione di un ‘progetto differente’ rispetto a quello stabilito dalle politiche urbanistiche locali?