La categoria dei beni comuni esiste già nel nostro ordinamento: l'evoluzione teorica di una diversa tipologia di beni, oltre la dicotomia pubblico-privata

I beni comuni, necessari per la vita o preordinati a realizzare interessi di particolare rilevanza per gli individui (poiché investono diritti fondamentali delle persone o evocano loro radici culturali o ragioni identitarie), si caratterizzano per la non esclusione dall’uso generale, con conseguente non assoggettabilità ad un prezzo quale corrispettivo del loro utilizzo. Ciò, soprattutto in tempi di crisi economica, li pone in controtendenza rispetto all’assoggettamento dei beni pubblici alle logiche del mercato, attraverso forme di privatizzazione o di gestione privata. Gli stessi beni sono, inoltre, correlati ad una comunità di riferimento del bene che intorno agli stessi si crea o, qualora già esistente, si rafforza.

Tuttavia, vi sono incertezze sulla definizione di bene comune, sulle tipologie di beni che entrerebbero a farne parte, sul concetto di comunità.

E’ stato invocato il riconoscimento legislativo della nuova categoria, nell’ambito dell’auspicata riforma della disciplina dei beni pubblici di cui al capo II del titolo I del libro III del codice civile. Noto è lo schema di disegno di legge delega elaborato nel 2012 dalla c.d. Commissione Rodotà.

Pur in mancanza di una disciplina generale, la legislazione, soprattutto regionale ma anche nazionale, ha fatto espresso riferimento ai beni comuni, ad esempio, in tema di governo del territorio, consumo del suolo e acque. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto taluni beni demaniali (le Valli da Pesca venete) come funzionali ai diritti fondamentali di determinate collettività, definendoli espressamente beni comuni. Anche il Consiglio di Stato ha affermato che lo sfruttamento privato del bene comune porta ad un impoverimento della comunità (il caso è quello di una concessione da parte di una Regione ad una ditta produttrice di acque minerali del diritto di sfruttare una fonte riferibile ad una comunità).

Molti Comuni (il cui numero è in costante espansione) hanno approvato Regolamenti (sul modello creato da LABSUS) per la cura e la gestione dei beni comuni, attraverso forme di amministrazione condivisa con i cittadini. A fianco a tali buone pratiche si sono sviluppati casi di occupazioni illegittime di beni pubblici o privati, rivendicati come comuni, da parte di gruppi di cittadini (si pensi al caso del Teatro Valle a Roma).

La dottrina (Marinelli, Cerulli Irelli) non ha tardato a riconoscere la categoria dei beni comuni come una sorta di contenitore nel quale collocare anche gli usi civici previsti dalla l. 16.6.1927 n. 1766. Le tesi riferite a tali istituti (ad esempio, Grossi, Cerulli Irelli, Marinelli) possono costituire un punto di partenza per la costruzione di una teoria generale dei beni comuni.

Tutto ciò porta a ritenere che la categoria dei beni comuni già esista nel nostro ordinamento e pone problemi teorici.

Proprietà pubblica e privata in senso oggettivo

Come noto, l’art. 42 Cost. afferma che “la proprietà è pubblica o privata“. La funzione sociale della proprietà, di cui gli stessi beni comuni costituiscono un’applicazione, espressamente richiamata in relazione alla proprietà privata, deve considerarsi presupposta nella definizione di proprietà pubblica, costituendo un principio generale di tutte le forme proprietarie.

Ciò può portare a ritenere che la distinzione tra proprietà pubblica e privata debba fondarsi, a prescindere dal soggetto proprietario, su un criterio oggettivo – funzionale, in considerazione della destinazione del bene, ovvero dell’interesse (pubblico o privato) che esso è preposto a realizzare. Tale criterio appare alternativo a quello soggettivo che permea la disciplina dei beni pubblici dettata dal codice civile, centrata sul dato formale della titolarità della proprietà in capo alla pubblica amministrazione. La discussione non può prescindere dalle tesi degli autorevoli autori (A.M. Sandulli, Giannini, Cerulli Irelli, Cassese) che hanno classificato i beni secondo un criterio oggettivo, soggettivo o misto.

Beni comuni e uso comune

Al fine dell’inserimento della teoria dei beni comuni tra quella dei beni pubblici e dei beni privati, si deve preferire una classificazione fondata sul criterio oggettivo – funzionale della destinazione del bene, divenendo recessivo l’aspetto dell’appartenenza del bene. Si può così affiancare alle categorie pre-esistenti dei beni di interesse pubblico (beni pubblici) e dei beni di interesse privato (beni privati) quella dei beni di interesse comune (beni comuni), preposti a realizzare l’interesse di una comunità (ovvero di ciascuno dei suoi membri) e non quello pubblico generale ovvero quello individuale.

La categoria dei beni comuni viene, dunque, ad individuarsi in relazione alla funzione di tali beni e in contrapposizione con la destinazione pubblica. Sotto tale profilo, se appare chiaramente pubblica la destinazione dei beni a soddisfare interessi peculiari della pubblica amministrazione (come nel caso degli uffici pubblici) più delicato appare distinguere tra destinazione pubblica e destinazione comune per i beni aperti all’uso generale. Da un punto di vista definitorio, occorre fare riferimento all’uso comune per descrivere l’uso generale di un bene da parte di una determinata comunità o gruppo circoscritto di cittadini, in contrapposizione all’uso pubblico che spetta a tutti i cittadini indistintamente.

L’uso comune si differenzia da quello pubblico anche per intensità, poiché i beni comuni per i membri della comunità sono essenziali per la vita, afferiscono a diritti fondamentali delle persone, evocano loro radici culturali o ragioni identitarie. Tutto ciò non toglie che gli stessi beni, allo stesso tempo, possano anche arrecare utilità (di diversa natura o intensità) a soggetti diversi dai membri della comunità: in primo luogo, alla collettività indistinta, essendo dunque anche beni a destinazione pubblica; in secondo luogo, a privati (ad esempio il soggetto a cui il bene appartiene), essendo anche beni a destinazione privata. Può esservi, dunque, il caso di conflitti tra i diversi usi dei beni (si pensi ad un parco pubblico cittadino, bene comune per chi risiede stabilmente nelle zone circostanti ma aperto all’uso generale anche dei turisti).

Emerge un rinnovato ruolo delle comunità (territoriali ma non solo) che si creano intorno a questi beni, particolarmente rilevante in un’epoca di crisi dei c.d. corpi intermedi (partiti politici, istituzioni sociali e religiose, ecc.), con la necessità di sistemi decisionali condivisi, ispirati non più alla sola rappresentanza ma anche a forme di democrazia deliberativa e partecipativa.

La gestione comune

Qualora i membri della comunità instaurino comportamenti incentrati sulla cooperazione, i beni comuni possono essere oggetto di gestione diretta da parte delle stesse comunità di riferimento, come dimostrano gli studi del premio Nobel E. Ostrom.

La gestione comune appare una reazione rispetto all’insoddisfazione per la tutela e la gestione dei beni comuni, normalmente lasciate alla pubblica amministrazione, dalle quali sono escluse le comunità. Dall’altro lato, essa costituisce una reazione alla eccessiva fiducia nell’efficienza del mercato e sopratutto dell’equità delle soluzioni perseguite attraverso tale strada. La crisi economica ha accentuato tali debolezze poiché sono diminuiti i fondi pubblici a disposizione e la gestione economica dei beni, in molti casi, non è più remunerativa.
Peraltro, l’autorità pubblica mantiene un ruolo centrale poiché, da un lato, deve creare le condizioni affinché si rafforzi la cooperazione nell’ambito delle comunità; dall’altro, deve intervenire quando la comunità non cooperi a salvaguardia del bene che altrimenti ne risulterebbe compromesso.
Nel diritto interno, la gestione comune costituisce un’applicazione del principio di sussidiarietà c.d. orizzontale di cui all’art. 118 comma 4 della Costituzione. La locuzione “favoriscono” comporta un dovere a carico degli enti pubblici di creare le condizioni idonee a che i cittadini assumano l’esercizio delle attività di interesse generale (Arena).

Gestione comune e gestione privata non profit

La forma più naturale di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale ai beni pubblici è quella del coinvolgimento di privati non profit. Il c.d. terzo settore, oggetto della legge delega n. 106 del 6.6.2016 in corso di attuazione, è costituito da un complesso di istituzioni che si collocano tra lo Stato e il mercato, ma non sono riconducibili né all’uno né all’altro.
Il coinvolgimento del terzo settore nel governo dei beni (si pensi al caso dei beni culturali) non deve però concettualmente essere confuso con il tema dei beni comuni, pur se vi sono margini di contiguità tra i due argomenti. La gestione non profit dei beni pubblici appare ancora riconducibile al dualismo pubblico – privato e appartiene all’area di quest’ultimo.
Tuttavia, gli stessi modelli organizzativi del non profit possono essere adottati anche per la gestione dei beni comuni da parte delle comunità di riferimento del bene, senza che ciò escluda che la gestione di tali beni da parte delle comunità possa essere orientata economicamente, con redistribuzione degli utili nella remunerazione dei lavoratori (ad esempio, secondo il modello della c.d. impresa sociale). Può essere, inoltre, fatto ricorso a forme di finanziamento diffuso (crowdfunding) o di finanziatori terzi (ad esempio, le fondazioni bancarie, come dimostra l’esempio del bando per la gestione di beni comuni urbani emanato congiuntamente dal Comune di Siena, dalla Fondazione Monte dei Paschi e da LABSUS). Ciò potrebbe tradursi, soprattutto in talune realtà locali del nostro Paese in una rilevante opportunità di occupazione, con prospettive davvero promettenti.

Per approfondire: Gianfrancesco Fidone, Proprietà pubblica e beni comuni, ETS, 2017.

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