In Europa il tema è già da tempo presente nel dibattito e anche in Italia vi sono esperienze diverse già in atto: i patrimoni culturali, tangibili e intangibili, sono ormai ampiamente riconosciuti come beni comuni.

Sono passati 13 anni da quando, il 27 giugno 2005, si è svolto a Faro, in Portogallo, l’incontro di apertura alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa e all’adesione dell’Unione europea e degli Stati non membri della Convenzione Quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, comunemente detta Convenzione di Faro, entrata in vigore il 1° giugno 2011 e firmata dall’Italia nel 2013 insieme ad altri 21 Paesi (di questi, 14 l’hanno anche ratificata, ma non l’Italia).
Eppure, quella data e quel documento rappresentano ancora oggi una pietra miliare per chi si occupa di patrimonio culturale e del suo ruolo nella società contemporanea, patrimonio che il documento definisce come “insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi. Infatti, la Convenzione di Faro, partendo dal concetto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e a godere delle arti, come sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi 1948) e garantito dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Parigi 1966), compie un ulteriore passo avanti rispetto agli illustri precedenti, chiamando le popolazioni a svolgere un ruolo attivo nel riconoscimento dei valori dell’eredità culturale e invitando gli Stati a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo, fondato sulla sinergia fra pubbliche istituzioni, cittadini privati, associazioni.

Patrimonio culturale come bene comune

L’elemento principale di novità è costituito proprio dallo spostamento dell’attenzione dall’oggetto – patrimonio culturale – al soggetto – cittadini e comunità: l’art. 12 (comma b e d) della Convenzione infatti afferma che le parti si impegnano a “prendere in considerazione il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale all’eredità culturale in cui si identifica” e a “promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare”. La Convenzione quindi vede nella partecipazione dei cittadini e delle comunità la chiave per accrescere in Europa la consapevolezza del valore del patrimonio culturale e il suo contributo al benessere e alla qualità della vita.
I punti chiave sono dunque la nozione di patrimonio culturale come bene comune, la definizione di “comunità di eredità” e il concetto di valore come qualcosa di socialmente costruito. Per quel che riguarda il primo punto, il termine “bene comune” descrive uno specifico “bene” condiviso e vantaggioso per tutti – o per la maggior parte – dei membri di una determinata comunità. I beni comuni non appartengono a nessuno, sono beni condivisi, di cui beneficiano tutti. Questo vale anche per il patrimonio culturale che, in ultima analisi, appartiene all’umanità ed è custodito per le generazioni future. Acqua, aria, ambiente sono beni comuni in senso globale, ma il centro storico di una città, un monumento, un museo locale, un giardino pubblico, un paesaggio sono beni di cui beneficiano specifiche comunità e possono rappresentare elementi chiave dello sviluppo locale, contribuendo a migliorare la qualità della vita di quella comunità e producendo integrazione, coesione sociale e senso di appartenenza.
Il secondo punto riguarda le “comunità di eredità”, che la Convenzione definisce come “insieme di persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future”. E’ chiaro che il concetto di comunità può essere inteso in senso più ampio ma, in qualsiasi accezione lo si voglia considerare, esso è strettamente legato alle nozioni di accesso e di partecipazione.
Dunque, e giungiamo così al terzo punto, le comunità hanno un ruolo fondamentale nella valorizzazione del patrimonio, posto che – attraverso processi partecipativi – si approprino in maniera consapevole dei valori connessi a quest’ultimo, ridefinendoli: infatti, il concetto di valore è un concetto socialmente costruito, che muta nel tempo e che dipende da fattori storici, sociali e culturali.

Partecipazione e cultura

Per realizzare questo passaggio è necessario investire in politiche e strategie finalizzate a favorire non solo l’accesso ma anche la partecipazione alle attività legate al patrimonio e ai processi decisionali ad esso relativi: in una parola, investire seriamente in processi di audience development, inteso come processo strategico e dinamico che consente alle organizzazioni culturali di mettere il pubblico – inteso non solo come visitatori bensì come individui e comunità di riferimento – al centro della propria azione (si veda ad esempio: Fitzcarraldo, ECCOM, Culture Action Europe, Intercult, 2017, Study on Audience Development: how to place audiences at the centre of cultural organizations, engageaudiences.eu).
Da una parte infatti, audience development significa impegnarsi sui fronti dell’incremento dei numeri della partecipazione e della diversificazione delle fasce di popolazione che usufruiscono di beni e attività culturali. Infatti, tra il 2007 e il 2013, la partecipazione culturale ha subito una contrazione in tutti i Paesi europei, in cui i livelli di coinvolgimento definiti “alti” e “molto alti” sono passati dal 21% al 18%, il livello “medio” è sceso dell’1% e quello “basso” è passata dal 30% al 34%. Nei 27 Paesi europei in cui è stata svolta l’indagine, le persone intervistate indicano nella mancanza di interesse e nella mancanza di tempo gli ostacoli principali al consumo di cultura: la partecipazione culturale risulta essere determinata in maniera rilevante da fattori quali l’istruzione, il reddito e la posizione lavorativa (V. Azzarita, “La mappa della partecipazione culturale in Europa” in Giornale delle Fondazioni, 2016).
Dall’altra, considerando che le pratiche partecipative non sono che una delle due facce della medaglia, significa investire sul secondo aspetto legato alla partecipazione, cioè quello della partecipazione ai processi decisionali, attraverso i quali è possibile portare a compimento la visione della Convenzione di Faro. Anche in questo, l’audience development è la strategia su cui puntare, dal momento che il terzo elemento chiave su cui si basa è proprio quello del rafforzamento del legame tra istituzioni culturali e cittadini, in cui rientra a pieno titolo la partecipazione ai processi decisionali che possono riguardare non solo le attività ma anche i processi gestionali e che può essere conseguita attraverso processi di co-creazione e capacity building interni ed esterni (intesa come potenziamento delle capacità del personale interno e delle comunità).

Le pratiche in atto

In Europa il tema è già da tempo presente nel dibattito e anche in Italia vi sono esperienze diverse già in atto (per approfondire: R. Mencarelli, “Verso una governance partecipata” in Giornale delle Fondazioni, 2015): i patrimoni culturali, tangibili e intangibili, sono ormai ampiamente riconosciuti come beni comuni che hanno attivato esperienze e modelli teorici che ne promuovono la cura e la valorizzazione secondo modalità sempre più partecipative (e non è casuale che nel quadro del Piano di Lavoro per la cultura 2015-2018, varato dal Consiglio dell’Unione Europea a fine 2014 durante il semestre di Presidenza italiana, uno dei gruppi di lavoro previsti stia lavorando su questo tema).
Nel campo del patrimonio culturale, la partecipazione è parte di un processo in corso di democratizzazione delle istituzioni culturali, attraverso il quale esse riconoscono che le conoscenze, le esperienze e le abilità delle comunità e degli individui valgono tanto quanto quelle degli esperti. Un’istituzione partecipativa capisce quindi che tutti i suoi stakeholder possono contribuire al raggiungimento della sua missione e dei suoi obiettivi e mettere in atto tutte le strategie per creare le condizioni per la co-creazione di contenuti, narrativa e valori.
I benefici di un approccio partecipativo nella gestione delle organizzazioni del patrimonio culturale sono chiari: coinvolgere il pubblico, insieme ai professionisti, nella gestione delle risorse culturali, storiche e naturali può creare un maggiore senso di proprietà collettiva nella comunità e facilitare la sostenibilità nel lungo periodo delle organizzazioni culturali coinvolte. Ma richiede anche aggiustamenti nella struttura di governance e un cambiamento nella cultura organizzativa delle istituzioni coinvolte, che devono essere pronte a cedere autorità, dando alle parti interessate una reale opportunità per avere voce in capitolo, e ad agire come facilitatori dei processi partecipativi, siano essi di tipo top down o bottom up (o entrambe le cose).
Le esperienze già realizzate ci dicono che gli elementi essenziali sono: l’uso del patrimonio culturale come strategia di coinvolgimento pubblico, lo sviluppo di reti intersettoriali e gli approcci collaborativi alla gestione. Più in particolare, si tratta di riunire diversi attori a livello locale, potenziarne le capacità, realizzare progetti trans-settoriali, assicurare che le attività di gestione e di governance siano condotte in modo aperto, partecipativo e inclusivo. Il patrimonio è formato e definito dalle persone e acquisisce e sviluppa significati proprio attraverso l’interazione continua con le persone: se le condizioni sopra esposte sono soddisfatte, allora un approccio basato sul patrimonio si rivela efficace nel riunire attorno a una visione e a obiettivi condivisi le diverse componenti di un territorio e nel promuovere e conseguire gestione e sviluppo su scala locale e globale.

Cristina Da Milano è presidente di ECCOM Associazione, membro del board di CAE-Culture Action Europe e dal 2017 fa parte del cda di Teatro di Roma.

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