“Abbiamo cercato di indagare e restituire una dimensione “micro” in termini topografici ma estremamente “aumentata” per quanto riguarda la complessità dei livelli antropologici, linguistici e culturali che vi si sovrappongono".

Un esperimento socio-artistico dai tratti rigorosamente “micro” durante il quale 26 artisti provenienti da Austria, Italia, Canada, Rep. Ceca e Slovenia, daranno vita, nella settimana che precede il Festival, a sei performance della durata di circa 15 minuti. E a raccontare cosa si nasconde tra gli scorci delle sei località protagoniste del Festival sarà proprio il mezzo simbolo delle terre montane: l’Ape Piaggio. Quest’ultimo infatti, spostandosi di paese in paese costituirà il “micro-palcoscenico” dove attori teatrali, performer, musicisti, artisti e abitanti avranno la possibilità di esibirsi.
Insomma, un “laboratorio in turnée” all’insegna del micro, dove però, tra micro-location, micro-palcoscenico, micro-gruppi teatrali, qualcosa di macro permane: la partecipazione.
Ne abbiamo parlato con gli ideatori e promotori del Festival, Matteo Carli e Natalie Norma Fella. 

Come nasce l’idea del Microfestival? Quali ricchezze si celano dietro il termine “micro”?

N.: Microfestival nasce da un’idea della cooperativa Puntozero. Quando Matteo me ne ha parlato non avevo capito esattamente cosa avesse in mente ma da quel momento in poi, insieme a Matteo e al resto della “cucina ideativa“, abbiamo cominciato a fare una cosa che si è rivelata poi essere fondamentale per tutto il progetto: incontrarci al bar, in osteria, a casa di qualcuno per cena e parlare per ore di come ci immaginavamo potesse essere questo festival.
Detto così sembra forse una cosa scontata e di poco conto ma questo fatto di ritrovarsi non intorno a un tavolo delle riunioni ma intorno a un tavolo da pranzo, è diventata la caratteristica di tutti gli incontri preparatori fatti sia tra di noi che insieme alle comunità coinvolte e che ha reso possibile far nascere dei legami reali, affettivi. In questo tipo di legame che si viene a creare è inscritto un patto, imprescindibile, attraverso il quale gli artisti, gli organizzatori e gli abitanti dei paesi si tendono la mano e insieme possono cominciare a danzare, a far nascere qualcosa di inatteso e speciale. Forse le ricchezze che si celano dietro al termine “micro” sono proprio questo tipo di legami e di patti possibili.

Dunque, è solo calandosi nella realtà friulana, parlando con suoi abitanti, attraversando vie e piazze, che diventa possibile riscoprire i legami sociali…

M.: Il microfestival è un’idea che nasce nelle sagre di paese e nei bar dello sport. In luoghi dove basta fermarsi un bicchiere in più per entrare in un mondo di racconti e narrazioni, per immaginarsi nuove storie e scoprire poi che l’imbianchino di lì è anche un grande cantante blues, ma solo da ubriaco. Abbiamo cercato così di indagare e restituire una dimensione “micro” in termini topografici ma estremamente “aumentata” per quanto riguarda la complessità dei livelli antropologici, linguistici e culturali che vi si sovrappongono.

“Nel suo piccolo”, il Microfestival confonde i ruoli di spettatori e attori. La partecipazione diretta è davvero l’elemento in grado di “ribaltare” il sistema? Può rappresentare il Godot che si sta aspettando da tanto tempo?

 M.: In Microfestival la partecipazione attiva dei paesi e dei loro abitanti è stata fin da subito condizione necessaria per lo sviluppo dell’assetto artistico e dell’approccio inclusivo e transculturale dell’offerta proposta. Spostandosi di piazza in piazza, di paese in paese, si è costituita così una carovana animata dalle voci e dai volti delle persone che li abitano, un festival d’arte relazionale che incrocia visioni sperimentali di artisti esterni con sguardi e pratiche profondamente locali.

N.: Mi sembra che nell’ambito delle arti performative si stia muovendo molto in questo senso. Sono sempre di più le esperienze il cui cuore pulsante è l’elemento della partecipazione diretta della cittadinanza. Mi sono chiesta ad un certo punto se questa mano tesa verso il pubblico, verso i cittadini non fosse una specie di canto del cigno del teatro, una richiesta d’aiuto, un agitare la mano per farsi vedere mentre lentamente si sta naufragando davanti all’indifferenza di molte istituzioni e, di conseguenza, delle persone. Poi però, grazie a Microfestival, e ad altri progetti di bravissimi colleghi (un esempio su tutti il lavoro e gli spettacoli di Kepler -452 e il loro Festival 2030) ho capito che su questa questione non dovevo ragionare ma sentire e quello che mi sembra di sentire vivendo queste esperienze sia da attrice che da spettatrice è una scarica di adrenalina, un’epifania collettiva in cui ci si riconosce e riscopre, un momento a volte intensissimo in cui ci si ricorda di non essere soli. Che sia finalmente arrivato Godot o meno non lo so ma so che tutto ciò è reale, concreto, succede e riesce a bucare lo schermo dell’autoreferenzialità senza per questo rinunciare al pensiero o a un’estetica del lavoro artistico.

Ribaltare la prospettiva può essere però molto costoso, soprattutto in termini economici. Come siete riusciti a realizzare un progetto simile? Che bando avete vinto?

Il progetto ha potuto svilupparsi grazie al finanziamento della Regione Friuli Venezia Giulia – afferma Matteo Carli – in seguito alla vittoria di un bando cultura nell’ambito Eventi e festival, spettacolo dal vivo. Microfestival si è poi avvalso del contributo fornito dalla Fondazione Friuli e di Turismo FVG e non per ultimo del sostegno delle associazioni e delle municipalità che hanno ospitato le sei tappe del festival.

Facendo riferimento anche alle esperienze passate, quanto è importante saper ascoltare il territorio e i suoi abitanti? Come vi hanno accolto?

N.: “Microfestival ha una storia recentissima, è nato poco più di un anno fa e quindi per ora possiamo riferirci solo all’esperienza della prima edizione e al lavoro in atto in previsione della prossima ma, come dicevo prima, l’ascolto del territorio e dei suoi abitanti può nascere solo grazie ad un patto e a un incontro reale. Nei mesi che hanno preceduto il festival siamo andati più volte nei paesi che hanno accolto le residenze artistiche, abbiamo incontrato le associazioni e gli enti presenti sul territorio. Di sicuro c’è bisogno di tempo, la magia non può nascere da un incontro fugace, soprattutto nel caso di Microfestival. I paesi in cui siamo stati sono piccoli, la popolazione non è numerosa, sono luoghi in cui il legame con il territorio è fortissimo e in alcuni casi pieno di sentimenti contrastanti. In un contesto così particolare si può solo entrare in punta di piedi, con rispetto e in ascolto; chiaro che l’accoglienza cambia di luogo in luogo ma in generale in questi luoghi c’è molta apertura e tanta voglia di raccontarsi.

M.: In paesi in cui più che altrove l’associazionismo è un forte valore identitario, l’accoglienza è stata fin da subito molto calorosa e sincera. Dopo chiacchierate, cene e camminate, gli artisti sono diventati ospiti ormai famigliari di un microcosmo fatto di persone e luoghi. Abbiamo così scoperto una dimensione in cui il tempo ha altri contorni e in cui la pratica dell’ascolto e della relazione è un passaggio necessario per entrare in un rapporto di intimità con il paesaggio e con i suoi attori.

Il teatro, sotto forma di Ape Piaggio che si muove a zig zag tra i confini friulani, può rappresentare davvero un megafono in grado di dar voce ai piccoli paesi e di promuovere il loro sviluppo?

M.: Sicuramente è stato un vettore in grado di restituire una fisionomia territoriale complessa fatta di alti valori paesaggistici e culturali. Oltre a offrire ai soggetti locali una visione inedita sulle proprie qualità e potenzialità, il festival ha lavorato allo sviluppo di una nuova attrattività turistica per i territori montani della regione, con lo scopo di incentivare la consapevolezza di un’alta qualità che necessita di essere veicolata attraverso strumenti alternativi e sperimentali.

N.: Non so se l’Ape possa rappresentare un megafono, di sicuro ne ha uno incorporato e quando passa in paese si sente eccome! Ma quella è la voce dell’Ape, i paesi in cui siamo stati, e tutti i luoghi ai confini come anche le periferie urbane per esempio, hanno delle voci proprie, molto chiare e personali che non si riescono a sentire quando si vive a distanza. Sono un po’ come il teatro e la cultura la cui voce si riesce a sentire bene quando ci si è molto vicini. Forse è per queste affinità che l’incontro tra il festival e le piccole comunità funziona, forse non siamo noi a dover promuovere lo sviluppo dei paesi, sono i paesi che riescono in modo del tutto spontaneo a promuovere il nostro e a farci uscire a riveder le stelle.

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