Un modo di attraversare i luoghi abbandonati, restituendoli agli altri attraverso la parola

Ricominciare dalle rovine. Mi sembra un buon modo per opporsi al tracimare delle macerie, con le quali non è mai il caso di identificarsi.
Un discorso intorno ai luoghi abbandonati tiene conto, nel mio caso, di suggestioni che hanno determinato un interesse sorprendente – ne è nata anche una definizione: abbandonologo.
Si tratta, dal mio punto di vista, di cercare la bellezza in una molteplicità di brandelli; cercare fra le assenze, guardando con interesse a quel puro, fittissimo nulla (secondo l’opinione diffusa). Provo a dirlo meglio: cercare la vita là dove si nega. Si tratta, in un certo senso, di interrogare la polvere che il tempo ha sparpagliato.

Cercare cosa?

Le orme che la storia lascia dietro di sé. Quella storia che sembra fatta solo di ciò che si rivela grandioso (epocale, si dice, ricomprendendo anche il terribile), e invece è fatta di uomini e donne passati fin troppo lievemente, trascorsi quasi senza esser vissuti – una massa indistinta, un numeretto di media alla voce popolazione -, come affetti da uno stato di minorità che li ha resi irrilevanti per i grandi movimenti. Restano i luoghi in cui sono stati. Città e i borghi – e, all’interno, case scuole chiese – intessuti di tutte le vite, i parti, le morti di chi li ha abitati. Le fabbriche, le cascine in abbandono, quanto lavoro umano fra mura a cui nessuno guarda più?
Succede che i paesi scompaiano, da un giorno all’altro. Quando accade, non resta che il nome, se sopravvive in qualche vecchia mappa. E resta il vecchio abitato, vuoto di tutto e prossimo a divenire un grappolo di ruderi.
Le città che scompaiono sono da sempre un oggetto di studio interessante. I fratelli Schreiber vi dedicarono un’articolata inchiesta, soffermandosi sulle città spazzate via dalle furie della natura, dalle ragioni economiche, dalle guerre. Un resoconto dettagliato – dal Mar Morto alla Manica, dalla Cambogia al Messico, passando per i Mari del Sud – sulle città la cui storia fu interrotta dalla violenza delle acque o delle sabbie, dei vulcani o dei terremoti, oppure in conseguenza dell’agire violento dell’uomo.

Perché può accadere, e spesso accade, che la storia a un certo punto si fermi.

I fratelli Schreiber concentrano i loro studi sui centri abitati colpiti dall’acqua, dal fuoco, dalla terra nelle catastrofi, oppure con un tenace attacco continuato per secoli. L’uomo, concludevano gli Schreiber, è tuttora impotente contro la rivolta delle forze della natura.
Le cause che determinano un abbandono non sono tutte ascrivibili ai rivolgimenti della natura (terremoti, frane, alluvioni), che operano con tragica innocenza, tante volte provocata dalla mano dell’uomo. I paesi vengono abbandonati per le condizioni di povertà in cui si trovano a vivere gli abitanti, costretti a un certo punto a spostarsi per cercare destino, oppure perché l’isolamento geografico ha irrimediabilmente inasprito condizioni di vita già faticose. Scompaiono per una decisione della ‘macchina amministrativa’ e in forza di ragioni in cui a valere è sempre un superiore interesse collettivo. A un rintocco ritenuto giusto le comunità devono spostarsi, lasciando case, abitudini, piccoli riti aggreganti, gli spazi del ritrovo: la chiesa, il cimitero, le vie che portano alla piazza, sempre uguale e sempre diversa.
Accadde, per esempio, nella provincia di Lucca, a Fabbriche di Careggine, un borgo medievale costruito dai fabbri ferrai bresciani e scomparso per inondazione nel 1953: il lago artificiale di Vagli si sostituì al borgo e ciascuna famiglia, mentre le acque entravano nelle case e le soverchiavano, prese a vivere confusa in un altrove indistinto, ognuna con la sua mancanza, il peso grande dello sradicamento. Periodicamente – più o meno a distanza di dieci, dodici anni – il bacino viene svuotato e il borgo riaffiora, con le case in pietra che sembrano essersi conservate bene sott’acqua. Un borgo che ormai viene dal nulla ma che, nelle moli delle case che ricompaiono a un tratto, custodisce nascosti qua e là i ricordi delle vite spostate.

Le pietre parlano. Lo diceva anche Freud, per altri versi.

Con gran dispetto dei realismi, inseguo dunque le assenze in luoghi ritenuti morti – perché chiamarli morti, se anche la morte da lì se ne è andata (se lo domandava anche Caproni, nelle parole dopo l’esodo dell’ultimo della Moglia)? Non sono morti, quei luoghi, hanno solo cominciato un’altra vita, che sfugge alla forza immediata dei nostri sensi. Una vita che circola nel vuoto. Il vuoto come risorsa, nel tempo corrente in cui riempire sembra un imperativo categorico.
Non è solo occuparsi di borghi abbandonati: è un modo di attraversarli, questo posso dire, di restituirli agli altri attraverso la parola. Quando il tempo lineare si ferma, comincia quello dell’erosione: un altro tempo, circolare come nel mito, che può tornare infinite volte su se stesso. È il tempo della disfazione, più clemente dell’altro se consente di cambiare i destini tirando giù il velo d’oblio a cui certe vite sono state condannate.
“So che alcuni diranno: perché ci descrive tutte queste erbe, e ci fa camminare su pietre spezzate, edifici in rovina?”, scriveva George Wheler, nella sua prefazione a A Journey into Greece (Londra, 1682).
Me lo chiedo anch’io, riflettendo su ciò che da più di un decennio mi porta a continui spostamenti, in un perenne cercare. Forse è tutto qui: scorgere una possibilità nelle cose lasciate a perdersi, nell’inutile (parola antimoderna, antieconomica) sospettando che negli scarti, nei margini, si nasconda l’avvenire, che non può non impigliarsi nell’origine.

Cos’altro è, se non spingersi verso la comprensione dell’indifeso, di ciò che è fragile?

Un esercizio di sguardo su una condizione che conosce il limite, la finitudine, ma preserva la durata.
Così immediate le rovine da assomigliare alla certezza dell’amore, scriveva il poeta ceco Vladimír Holan. Nell’inseguire questa immediatezza, per quanto mi è dato di capire, ho posto la mia consegna: andare per scampoli di mondo fuori da ogni possibile rispondenza alla funzione per cui erano stati edificati è, in fondo, dare conto di vite, amori, patimenti da tutti scordati.
Non ho costruito una riflessione attorno alle domande sulle rovine, piuttosto le ho abitate, con la premura per le cose che hanno perduto la destinazione d’uso, e ora stanno e non attendono nulla. Con una precisazione di metodo: rovine e ruderi hanno pari dignità, oltre che lo stesso colore; e poi la natura le infesta allo stesso modo; tutti portano esposti i segni delle lacerazioni a cui sono sopravvissuti. In una visione così suggestiva (suggestiva per me, s’intende), l’abbandono si rivela egualitario: un casolare abbandonato in una remota campagna non è meno suggestivo di una villa in rovina, un tempo sontuosa.
Poi, lo sappiamo: c’è un modo di darsi delle rovine che, seppure in percezione diseguale, ci interroga e chiama in causa (le loro ombre toccano i recessi dell’anima, scrive Woodward) come venissimo da un abbandono, per lenire il quale ci guardiamo intorno e se, attraverso le foglie e gli sterpi, scorgiamo una casa in bilico nella rovina, ne facciamo la nostra dimora provvisoria. L’abbandono che cura un abbandono: questo sentivo fin da bambina, quando mi spingevo oltre la soglia di ciò che mi era consentito abitare; poi ho cercato un modo per dirlo.

Scampoli. Scampati. Un rovinio di parole.

Nella salvezza perpetua non ho mai creduto. La salvezza provvisoria – la salvezza tipica degli scampati, questa salvezza fragile dei sopravvissuti – sento che può appartenermi. Così, con lo stesso sentimento dello scampato, posso guardare alle mie ferite, a questo reticolo di crepe, e ritrovarmi ancora in piedi. È un modo come un altro, se si vuole, di vedere nella sottrazione e nella perdita una possibilità.

Carmen Pellegrino ha scritto saggi di storia e racconti. Da anni raccoglie suggestioni sui luoghi abbandonati. Il suo romanzo d’esordio, Cade la terra, ha vinto il Premio Rapallo Carige opera prima e il Premio Selezione Campiello.

In evidenza: Borgo fantasma di San Severino di Centola (SA), foto di Elena Taverna