Cinquant'anni dopo Hardin: spunti di riflessione per il paradigma collaborativo

Ancor prima di essere qualcosa, i beni comuni sono un modo di vedere le cose, visibili e invisibili. In questa prospettiva le risorse non sono tanto pubbliche o private, quanto comuni: sono quei particolari beni di interesse generale, il cui accesso deve sempre essere garantito a tutti. Per quanto estrema e provocatoria possa sembrare questa definizione, diverse comunità di persone – attive da decenni, sparse in tutto il mondo e sempre più in rete fra loro – la vedono invece così, contribuendo con variegate esperienze a un effervescente dibattito sui beni comuni.

Le comunità d’interesse generale

Esattamente cinquant’anni fa l’ecologo americano Garrett Hardin pubblicò sulla rivista Science un saggio fondamentale. Lo intitolò La tragedia dei beni comuni perché vi si argomentava la tesi secondo cui la libera iniziativa nella gestione di un bene comune avrebbe portato alla rovina di tutti. L’esempio che viene più frequentemente ripreso da questo articolo è quello del pascolo aperto all’uso di chiunque voglia fruirne. Inesorabilmente la capacità di carico del pascolo andrebbe in crisi perché crescerebbe in continuazione il numero dei pastori che vorrebbero sfruttarlo aumentando il proprio gregge. Si consumerebbe così, appunto, the tragedy of the commons.
Sempre a partire dal testo di Hardin si possono prendere in considerazione i parchi nazionali come beni aperti senza limiti a tutti, anch’essi dunque fortemente a rischio. Perciò, che fare? Le risposte che trovò furono: venderli a privati oppure mantenerli pubblici, a patto di regolarne l’accesso e la fruizione. Sul come l’autore fece le ipotesi più diverse, che andavano dall’estrazione a sorte, a criteri meritocratici, fino al “chi prima arriva meglio alloggia”. Questo è un passaggio fondamentale da ripercorrere, perché vi si legge chiaramente il tradizionale paradigma bipolare “amministratori/amministrati”, che ha oggi invece un’alternativa possibile nel paradigma collaborativo: i beni comuni possono essere oggetto di alleanze tra soggetti pubblici, privati e del Terzo settore, in nome dell’interesse generale e secondo il principio di sussidiarietà enunciato nell’art.118 della nostra Costituzione. Una norma profondamente innovativa perché riconosce di fatto le “comunità di interesse generale”, capaci di attivarsi autonomamente nell’interesse di tutti e per questo garantite dalla nostra Costituzione.

Leggi e regolamenti: in anticipo, in ritardo, puntuali

Hardin accusò la legge di arrivare sempre in ritardo, mentre si potrebbe affermare che in Italia l’articolo 118 della Costituzione sia arrivato con troppo anticipo: sono infatti dovuti passare circa tredici anni dall’introduzione del principio di sussidiarietà all’adozione, a Bologna nel 2014, del Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani. Questo primo Regolamento nacque per far sì che molte risorse che i bolognesi attivi offrivano quotidianamente all’amministrazione pubblica locale non continuassero ad andare sprecate. Molti episodi di cronaca riportano ciclicamente virtuose iniziative di abitanti finite con sanzioni agli stessi: in alcuni casi si tratta di episodi paradossali (come la denuncia a chi ripara una fontana rotta da tempo), ma in altri casi comprensibili (poniamo, ad esempio, il caso della verniciatura di panchine con colori improbabili). Insomma, esiste nel mondo occidentale un tema di legalità anche nella relazione tra un sempre più vivace attivismo comunitario – molte volte precursore dei cambiamenti e all’avanguardia – e la sfera delle politiche pubbliche locali. Dal 2014 a oggi centinaia di patti di collaborazione sono stati stipulati nel solo Comune di Bologna, rivelando una sorprendente casistica di possibili attività di interesse generale. È quindi piuttosto recente la possibilità che hanno le istituzioni presenti sul territorio italiano al livello più vicino agli abitanti, quello locale, di dotarsi di uno strumento arrivato a sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini, rendendola legale e facilitandola sotto diversi aspetti (primo fra tutti il profilo assicurativo, a ragione temutissimo). Il Regolamento per l’amministrazione dei beni comuni in Italia sembra quindi essere arrivato con una certa puntualità, visto che in meno di cinque anni è stato adottato da circa 180 comuni italiani di diverse dimensioni e colori politici.

Competere o condividere

Nonostante i chiari esempi di gestione condivisa di beni comuni che il panorama italiano offre allo sguardo, è altresì vero che molte sono le resistenze alla “rivoluzione silenziosa” agita dalle migliaia di italiani di cui Labsus racconta le storie. La questione generale, per voler parlare delle remore, è se sia possibile condividere interessi generali in contesti competitivi. Ma la competizione, va detto, è per lo più codificata da tradizioni orali, da codici di comportamento, da norme. L’ambivalenza del termine competizione rimanda perciò ai risvolti positivi e negativi delle leggi scritte e delle convenzioni non scritte che regolano gli aspetti competitivi della convivenza umana. Il dilemma psico-sociale tra interesse individuale e utilità collettiva continua a interrogare l’essere umano, così come interrogò Hardin nel 1968. Se iniziassimo a chiamare “comunità di interesse generale” i gruppi di persone guidate dal senso di responsabilità civica e accomunate da questo modo di vedere le cose, faremmo fare un salto storico al tradizionale concetto di “comunità di interesse”, ben noto ai sociologi e ben presente nell’elaborazione di Hardin.
Se è più naturale immaginare i beni pubblici come disponibili a tutti, meno numerose sono le immagini di beni privati che garantiscono l’interesse generale. Se da un luogo pubblico come una strada o una piazza ci si aspetta la fruizione da parte di tutti, uno spazio privato come una fabbrica rimanda immediatamente a un uso esclusivo, solo da parte di chi può accedervi, e per perseguire interessi particolari. La realtà è però più complessa di così e potremmo qui citare casi che esulano dallo schema: rispetto alla piazza, non solo vi sono spazi privati a uso pubblico (quanta superficie di alcune piazze è a uso esclusivo di chi consuma nei locali privati che vi si affacciano?) ma vi sono anche dinamiche che di fatto espellono persone da alcune zone delle città (gentrification). Basterà poi tornare all’esperienza di Adriano Olivetti come sconfinamento della fabbrica oltre il puro profitto d’impresa e verso l’interesse generale delle comunità: in particolare, penseremo ad alcuni spazi e servizi della città di Ivrea progettati e gestiti secondo principi di accessibilità e apertura a tutti. Secondo alcuni sarebbe proprio la crisi dell’ideologia proprietaria ad alimentare la speranza di rinnovamento sociale a partire dai beni comuni, a partire da società o istituzioni che mettono finalmente a disposizione risorse en accès ouvert.

Contesti urbani e aree interne

Gradualmente i patti di collaborazione scoprono nuovi ambiti e puntano a candidarsi come strumento utilizzabile anche in contesti privilegiati, ad esempio in edifici localizzati in zone prestigiose delle maggiori città italiane. In questi casi è ovvio che l’apertura a tutti i possibili soggetti interessati richiamerà l’attenzione di molti, ma sta diventando altrettanto chiaro che il tradizionale strumento competitivo del bando, che premia la migliore offerta in base al parametro del rapporto tra qualità e prezzo, può essere innovato a favore di molteplici realtà capaci di collaborare e di includere. Tra i laboratori di amministrazione condivisa più promettenti vi sono le scuole: edifici e comunità che funzionano da servizio pubblico nell’orario scolastico, terminato il quale si aprono come beni comuni a tutti coloro che vogliano proporre attività di altro tipo nella fascia oraria pomeridiana e serale. Come un sindaco e la sua giunta possono imboccare la strada della collaborazione con gli abitanti attivi, così un preside può farlo insieme a insegnanti, genitori e società civile attiva fuori dall’istituto: il passaggio dall’attitudine autoritativa a quella collaborativa è il medesimo.

I patti per rigenerare

Un ultimo spunto dalla lettura del saggio di Hardin riguarda una sua precisazione conclusiva: un regime di risorse comuni, se giustificabile, lo è solo in condizioni di bassa densità di popolazione. A mezzo secolo di distanza, come abbiamo argomentato in questo articolo, molti sono gli esempi di matrice urbana che potrebbero smentire questa asserzione. Sembra anzi che proprio la concentrazione di cittadini attivi tipica delle città sia spesso alla base della domanda di amministrare insieme all’istituzione comunale i beni comuni urbani.
L’Italia è d’altra parte una terra che in molte sue parti interne pone il tema della bassa densità abitativa, quando non del rischio esplicito di spopolamento. In questo senso sarebbe auspicabile che le politiche pubbliche rivolte ai territori più marginali e meno accessibili ripartissero proprio dall’investire su quei beni comuni che già catalizzano comunità di interesse generale, seppur in embrione. Il Regolamento pone a sua volta la domanda alla società responsabile: quali patti di collaborazione potrebbero essere costruiti e proposti al comune o all’insieme di comuni in via di spopolamento allo scopo di rigenerare i luoghi?
Per le politiche immobiliari che i nostri governanti hanno scelto di portare avanti nel secolo scorso, siamo tra i maggiori possidenti immobiliari d’Europa: visto il particolare rapporto che molti italiani hanno con le proprie case di proprietà, il tema dei beni privati intesi come beni comuni può forse provocare in alcuni lettori riflessioni personali. Immaginate ad esempio di avere una seconda casa, in un luogo che dal punto di vista immobiliare non vale quasi nulla. Un gruppo di abitanti della zona in cui si trova il vostro immobile vi propone di ospitare delle attività aperte a tutti. Che cosa fareste?

L’articolo è un estratto del contributo apparso su Munera. Rivista europea di cultura, 1/2018