Il dibattito sul procedimento di riforma costtiuzionale

Il ministro Chiti, mostra di aver capito che il recente «no » suona critica e monito anche per il centrosinistra

Questo non convince. E’ la preminenza che si vuol dare alla «competenza» che risulta discutibile. Competenze certo servono, sempre. Ma nell’ultimo secolo l’umanità ha imparato che la guerra non può essere lasciata nelle mani dei generali, la vita non può soggiacere all’ «accanimento terapeutico» dei medici, la ricerca scientifica deve rispondere alla etica condivisa socialmente, ecc.

Che le riforme di costituzione siano competenza e «affare» di giuristi e politici è pretesa che non fa uscire dal circolo vizioso: soltanto, vi si coopta una corporazione di studiosi, assumendo l’indimostrabile, e cioè che essi possano meglio determinare «l’interesse generale» .

L’obiezione non poggia su una astratta fede nella «democrazia di massa» , ma sulla prova storica, appena citata, che senza partecipazione popolare saremmo ancora ai giochi bloccati di prima Repubblica. Anche nel merito, le proposte più capaci di determinare percorsi progressivi furono presentate alla Bicamerale di D’Alema dal mondo dell’associazionismo e del terzo settore: non accolte allora, sono successivamente entrate nella riforma ( art. 118.4, potere «sussidiario» della cittadinanza attiva) e si deve alla loro pratica applicazione l’allargamento effettivo della sfera pubblica del Paese.

Ma c’è di più. Tra quelle proposte, c’era anche una riforma del 138 (scritta nel ‘ 95 da un cartello «civico» e firmata da Dossetti e molti autorevoli giudici costituzionali: «Democrazia e diritto», n. 4 del 94 – 1 del 95), che delineava una modalità di «processo costituente» assistito dalla garanzia dei diritti già vigenti, mediante il controllo della Corte costituzionale sulle proposte (se si vuole competenza, questo intervento è sicuramente più autorevole e vincolante, di quello suggerito dal politologo!), e comunque da un referendum popolare deliberativo (con previsione di quorum), sulle decisioni parlamentari. Nessuno la raccolse. Si sono persi dodici anni: e ora «tornare al 138» non è solo segno di ripetuti fallimenti, ma proposta impossibile.

Il ministro Chiti, che vorrebbe la procedura di revisione nel senso di richiedere comunque la maggioranza dei due terzi (escludendo quindi decisioni a stretta maggioranza di governo) mostra di aver capito che il recente «no» suona critica e monito anche per il centrosinistra. Ma a ben vedere non è questo il punto da cambiare: e non ce n’è neppure bisogno, entrambe le coalizioni avendo capito che devono cercare intese tra loro ( in campagna elettorale lo hanno ripetutamente riconosciuto). Il punto è che ora tutto questo non basta: bisogna risolvere altri due nodi.

Quello del vincolo insuperabile con la prima parte della Costituzione (perciò: intervento terzo della Corte), e quello della necessità comunque di una verifica referendaria (il 138, al contrario, ipotizza si possa escludere, se c’è accordo larghissimo tra i partiti).

Ma chi oggi può credere che l’accordo tra coalizioni (supportato magari da esperti «trasversali») possa cambiare la costituzione escludendo il ruolo proponente della cittadinanza attiva e l’intervento popolare conclusivo? Altre dunque sono le strade da esplorare. Serve che si allarghi la discussione.

Questo editoriale è stato pubblicato su "Il Corriere del Mezzogiorno" del 23 luglio 26