Alla ricerca del talento perduto

La diagnosi è quella di una malattia degenerativa che distrugge le migliori cellule della società .

La risposta a queste domande è: no!
No! non è un fatto genetico. No! non è un caso di omonimia. No! non è un vincolo legislativo. No! non è merito dell’esperienza!

Quattro "no" che ci svelano che ci troviamo di fronte a dei sintomi: quelli di un paese sull’orlo del ricovero.
La diagnosi è, come ci suggerisce Giovanni Floris, quella di una malattia degenerativa che distrugge le migliori cellule della società; una malattia progressiva che porta alla paralisi; che minaccia il futuro di tutti.

Una malattia che la classe dirigente del Paese non solo non prova a contrastare, ma spinge e promuove.

La malattia di una società dove l’ascensore sociale è fermo per manutenzione, o, meglio, è guasto e nessuno si sta preoccupando di chiamare l’assistenza.

Quarantaduesimi

Il Global competitiveness index del 27 apre con la Svizzera al primo posto. La seguono: la Finlandia, la Svezia, la Danimarca, e poi, Singapore, Stati Uniti, Giappone. Quindi la Germania, l’Olanda, il Regno Unito. Siamo al decimo posto e abbiamo già trovato tanta Europa, quella del Nord e quella che costituisce l’ossatura economica dell’Unione europea. Manca l’Italia. La troviamo in fondo, dopo Paesi che la nostra superbia culturale neanche prende in considerazione. Dopo la Corea, l’Estonia, la Malesia, il Cile, la Tunisia, la Slovenia, la Lituania. Ed eccola l’Italia, laggiù: al 42mo posto. Dopo la Francia, la Spagna, il Benelux.
Ringraziamo Polonia e Grecia che ci evitano l’onta di essere, ancora una volta, il capolista negativo dell’Unione europea allargata.

23 su 129, 1 ogni 5

Ieri, sulla Repubblica, un’inchiesta sull’università di Palermo. Docenti parenti: 58 a Medicina, 21 a Giurisprudenza, 23, su 129 professori, ad Agraria. Una dotta cupola di clan accademici si spartisce il sapere del capoluogo siciliano. Sarebbe bello potersi consolare attribuendo la colpa, come di frequente capita a questa tornata di ministri, al solito Sud Italia e circoscrivere il fenomeno a Palermo. Così non è!

Un’antica perversione

Cos’è che unisce parentopoli accademiche, gerontocrazia e immobilità sociale? qual’è il virus che accomuna queste malattie sociali?

La raccomandazione! Antica consuetudine, antico costume, moderna perversione. Nel 25 l’Espresso, con un’inchiesta di Riccardo Bocca, ci svelava un database delle Poste in cui erano archiviate le richieste di raccomandazioni con conseguenti esiti. I casi analizzati dall’Espresso erano 3.23. Migliaia di pagine, migliaia di nomi, di storie, di persone che, per un motivo o per l’altro, si erano rivolte a qualcuno, al potente di turno, al più potente raggiungibile: per uno scatto di carriera, per un’assunzione. Vai a sapere se il dirigente promosso avesse o non avesse diritto alla promozione? L’intervento del "potente" ha sanato un’ingiustizia o ne ha creata una nuova? E che differenza c’é tra le due cose?

Questo è il primo effetto della raccomandazione: livella ogni esperienza, ogni competenza, ogni impegno. Mette sullo stesso piano il merito e il demerito, il diritto e la prevaricazione, il talento e l’incompetenza, la responsabilità e l’inedia.

Ce le meritiamo

Se il sistema delle raccomandazioni funziona, di sicuro, è perché il terreno è fertile; perchè l’Italia e gli italiani amano farlo funzionare: noi le raccomandazioni le cerchiamo, le chiediamo e ce le meritiamo. E, infatti, siamo rotolati al 42mo posto.

Secondo una recente ricerca dell’Isfol un italiano su due dichiara di aver trovato un lavoro grazie alle amicizie; mentre sette ragazzi su dieci pensano che "un aiutino" serva a laurearsi in fretta.

L’indagine mondiale sui valori (World Values Survey) condotta dalle principali università internazionali ci fa sapere che il riconoscimento dei meriti è considerato come fattore "molto importante per il funzionamento della società" da una metà scarsa di nostri concittadini, mentre un recente sondaggio di "Libertàeguale" ci svela che il 44 per cento dei giovani ha dichiarato che "lavorare meglio degli altri" non giustifica aumenti di stipendio. L’aumento di stipendio uguale per tutti; per chi lavora meglio, come per chi non lavora. L’apoteosi del fannullone. Il 44 per cenro dei giovani!

Per il Censis il 61 per cento degli italiani ritiene che risorse economiche e relazioni personali contano più del merito e del talento per farsi largo nella vita.

"Alcuni preferiscono nella vita un lavoro sicuro, anche se meno redditizio; altri uno meno sicuro ma con maggiori prospettive di reddito. Lei con chi si sente d’accordo?" Quando Renato Mannheimer ha posto questa domanda il 71per cento, nel 26, si è schierato con i primi. Nel 21 erano il 59 per cento. Ad ammettere di non voler rischiare neanche un po’, a non credere né in se stessi né nel futuro era il 62 per cento dei giovani tra i 18 e i 34 anni. Prendendo solo il campione che si è autocollocato nel centro sinistra la percentuale cresce di 6 punti: il 68 per cento.
La parola fine, per il Paese, sul valore della competenza e della preparazione.

Un Paese senza futuro

Giovani ormai vecchi, giovani incapaci di gustare il futuro, giovani ripiegati su se stessi, senza audacia o ambizione elementi che oltre a garantire la crescita del Paese determinano anche il benessere e la gioia di vivere dei suoi cittadini.
Sul favore e sulla graziosa elargizione si poggia un intero sistema che sembra proficuo per tutti: per il potente che dimostra la sua potenze e per il debole che ottiene ciò che non merita. Nell’immediato sembra che ci rimettano solo i meritevoli, i talentuosi, i migliori: una minoranza per definizione.

Ma è nel medio e, ancor più, nel lungo periodo che l’impoverimento generale del sistema farà pagare, a tutti, una pesante cedolare. Secca. Il 42mo posto!

Il fenomeno della segnalazione non è solo italico. Anche nei paesi anglosassoni un professore universitario può inviare un curriculum ad un suo collega. Accompagnato anche da una lettera di raccomandazione. Ma in Gran Bretagna, o negli Stati Uniti, o in Canada nessuno si spenderebbe per qualcuno che non lo meritasse; pena la perdita di credibilità nel proprio ambiente. Da noi far promuovere un cretino è un segno della propria potenza, altrove una prova della propria debolezza.

I nemici della "spintarella"

Per fortuna ce ne sono. Primo: la parcellizzazione. Tanti poteri, nessun potente. Tanto in un’egemonia ottiene il favore dei suoi superiori chi si uniforma, chi diventa uguale, chi china il capo guadagnandosi il plauso del proprio capo; tanto in una società aperta e plurale viene premiata la differenziazione e l’iniziativa individuale; il merito invece del favore. Il talento può emergere solo in una società aperta.

Altro nemico della raccomandazione è la professionalità: più competenti si è, più sudore è costata la propria formazione, più si è investito su se stessi e meno si è disposti alla rassegnazione. Chi può contare sulla propria preparazione non ha bisogno di aiuti artificiali: non li ricerca, li osteggia.

Il problema che Labsus vuole porre all’attenzione della propria piccola, ma qualificata platea, non è la singola raccomandazione o il singolo raccomandato.

Il problema è che dove entra, o dove è stato promosso, un raccomandato non è stato valutato il merito. E se il valore, se il merito non viene valutato in nessun ambito del sistema, se l’intera nazione smette di misurare i talenti, di premiare chi può dare di più, di valutare le capacità di chi sceglie, il sistema si blocca, smette di crescere, di svilupparsi.

Il Paese degrada

Come ci spiega Antonello Caporale nel suo libro appena pubblicato "Mediocri" l’esodo del know how rende l’esatto polso del declino: coloro che col talento potrebbero fornire i mezzi culturali per superare la crisi sono, inspiegabilmente, esiliati.

Più talento viene messo all’opera e maggior benessere ne trae tutta la comunità! E’ il mantra del bene comune: più viene manutenuto e tutelato, e meglio si vive. Più decade, più degrada la società civile. Il talento è un bene comune che la società civile deve ri-imparare a difendere e, quando c’é, deve far crescere. Per il bene di tutti, nell’interesse generale.

Una nuova, l’ennesima, richiesta di aiuto che la nostra debole, fragile, sofferta democrazia rappresentativa si trova a chiedere ai cittadini attivi: rimettere in moto il paese recuperando un bene comune che non viene vissuto come tale: il talento.

The Good News

La buona notizia è che di cittadini attivi nel recupero di un bene comune come il talento ce ne sono già.

Ci sono ad esempio "giovani attivi", il cui talento è stato forgiato da esperienze che li hanno condotti a essere eccellenti oppure a sedersi accanto all’eccellenza. Questi ragazzi hanno deciso di unirsi e provare a fare rete per promuovere merito, talento, eccellenza, e combattere così le contrapposte reti che i mediocri mettono su per occupare immeritatamente il potere. Si tratta di una forma di resistenza organizzata per provare ad arginare la "svendita del talento". Si sono dati un nome che è tutto un programma. Si chiamano appunto "Rena", Rete per l’ eccellenza nazionale (www. progetto-rena. it). Uno di loro, Irene Tinagli, ha anche dimostrato che se continuiamo a seminare medicorità e non riprendiamo immediatamente a coltivare l’albero fruttuoso del talento, potremo presto dire addio al mito del genio italico (I. Tinagli, Talento da svendere, Einaudi, 28).

Caporale li definisce una lobby ma, se anche fosse e forse non è, per una volta lo scopo è quello giusto: "Lottare per promuovere un’ idea, quella del merito, al servizio del Paese, perché anche i migliori possano trovare in Italia il riconoscimento che spesso tocca soltanto ai mediocri". Noi preferiamo però pensare a questi giovani attivi come "volontari del talento".