La svolta storica dello stato sociale inglese

I disoccupati possono mettere a disposizione di tutti le risorse e le capacità  di cui sono portatori per la cura dei beni comuni

Sin dal suo insediamento a Downing Street, il primo ministro inglese David Cameron ha tenuto a precisare, con estrema chiarezza, che obiettivo principale del suo governo sarebbe stato quello di ridurre il deficit pubblico tramite tagli rigorosi, e quanto più possibile razionali, della spesa statale. E’ in quest’ottica che va inserita l’iniziativa del ministro titolare del welfare Ian Duncan Smith volta ad operare la più grande rivoluzione del welfare state in Inghilterra dal 1942, anno in cui, attraverso il rapporto Beveridge, se ne decretò ufficialmente la nascita. E, stando alle parole dei più critici, saranno principalmente i disoccupati ad uscirne con le ossa rotte.

Il progetto in sintesi

Prendendo come punto di riferimento le parole dello stesso ministro promotore dell’iniziativa, secondo cui molti disoccupati trovano conveniente rimanere in questa sorta di limbo grazie ai corposi sussidi ricevuti dallo Stato, le soluzioni prospettate per debellare quella che lui definisce la “schiavitù del welfare”, sono principalmente due: la prima si basa sull’offerta di un lavoro, da parte dello Stato, a chi percepisce l’indennità di disoccupazione da un lungo periodo di tempo, permettendo comunque di trattenere il trentacinque percento dell’assegno statale; la seconda, invece, fa leva sulla possibilità per i senza lavoro di poter mantenere l’intero sussidio, a condizione che accettino di fare volontariato per Ong e amministrazioni pubbliche o comunque svolgano lavori socialmente utili per almeno trenta ore alla settimana. La non accettazione delle proposte determinerebbe una sospensione dei sussidi (per tre mesi al primo rifiuto, per sei mesi al secondo e per tre anni al terzo).

I disoccupati come curatori dei beni comuni

L’idea di utilizzare i disoccupati nell’ambito dei cosiddetti servizi sociali è stata quella che ha suscitato le maggiori perplessità e una serie di critiche volte a denunciare una sorta di punizione per chi non ha un lavoro: qualcuno ha persino parlato di un ritorno ai “lavori forzati”. Eppure, senza voler scendere nel merito e nella bontà del progetto, si potrebbe benissimo dissentire con questa visione catastrofista secondo cui svolgere dei lavori per la comunità debba essere considerata una punizione o, peggio ancora, una tortura, se consideriamo soprattutto che se si parla di beni comuni è proprio perché riguardano tutti, nessuno escluso, e che tali beni se arricchiti, arricchiscono tutti e se impoveriti impoveriscono tutti. Non si tratta di scavare fosse con la palla al piede, ma di contribuire al bene della comunità utilizzando parte del tempo “vacante” in opere che vanno dalla pulizia delle strade al riordino dei giardini pubblici e così via discorrendo. Insomma, anche un modo per permettere a questi individui di poter uscire da quella situazione di marginalità sociale a cui lo status di disoccupati li ha relegati, facendo in modo che gli stessi possano mettere a disposizione di tutti quelle risorse e quelle capacità di cui sono portatori, contribuendo in questo modo alla manutenzione civica dei beni comuni.
Se i cittadini attivi sono il soggetto della sussidiarietà orizzontale, i beni comuni ne costituiscono l’oggetto per eccellenza(1) e considerare i beni comuni come un corpo estraneo alla propria sfera quotidiana rappresenta un modo come un altro di legittimare una visione ormai sorpassata secondo cui solamente ai soggetti pubblici spetta l’onere (o l’onore) di perseguire l’interesse generale.

(1) Si veda Gregorio Arena, Editoriale, Beni comuni. Un nuovo punto di vista, www.labsus.org, ottobre 21