Il Terzo settore, una grande risorsa italiana

Due proposte al Terzo settore, per contribuire alla rinascita

In Italia negli ultimi 25 anni l’ingiustizia e la disuguaglianza sono aumentate in maniera esponenziale. Ce lo conferma un bel saggio di Mauro Magatti intitolato Contro l’involuzione: per una rivoluzione liberal-popolare che ci mette di fronte a dati impressionanti e, sulla base di questi dati, sviluppa un’analisi e fa delle proposte molto interessanti. Considerando, dice Magatti, “l’indicatore più sintetico del livello di disuguaglianza – l’indice di Gini – nell’area OCSE, l’Italia è messa peggio solo di USA e UK, cioè dei due paesi più liberisti. Approfondendo l’analisi, si scopre che, negli ultimi 2 anni, il nostro paese ha peggiorato il suo profilo: rispetto alla metà degli anni ‘8, la disuguaglianza è cresciuta del 33% e oggi il 1% delle famiglie dispone del 45% della ricchezza, mentre il 5% dispone solo del 9,8%”.
Anche per ridurre il peso del debito pubblico, che negli anni in cui aumentava la disuguaglianza è anch’esso cresciuto fino a raggiungere il 118% del Pil (livello esattamente doppio rispetto a trent’anni fa), bisogna assolutamente rimettere in moto il Paese, perché solo se c’è sviluppo si può sperare di ridurre le ingiustizie e le disuguaglianze. La stagnazione attuale, da questo punto di vista, non fa altro che aumentare il divario fra i pochi che stanno molto bene ed i molti che stanno molto male.

“Un’idea orgogliosa di italianità”

Di fronte a questa situazione assolutamente inaccettabile il Terzo settore si domanda come e con quali strumenti le organizzazioni della società civile possano contribuire alla ripresa del Paese. E poiché i principi su cui si fonda il Terzo settore sono i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità, la questione riguarda appunto le modalità con cui questi principi possono essere interpretati così da diventare motore di sviluppo economico e civile.
Il punto di partenza di questo ragionamento è rappresentato dalla tesi di fondo di Magatti, secondo il quale “in un mondo aperto, solo le collettività che sapranno essere integrate e vitali possono sperare di continuare a esistere … senza una vita sociale prospera nella quale possa ancora fiorire la grande ricchezza personale che ha fatto e ancora fa grande l’Italia è impossibile pensare di reggere il confronto con i mondi che stanno emergendo. Le nostre eccellenze sono, infatti, da sempre espressione di un’alta qualità della vita personale e sociale…
Lo sviluppo non è mai solo una questione tecnica e di efficienza, ma è sempre la combinazione di molteplici fattori, tra i quali non può mancare quello riferito al senso.
In un momento difficile come questo, per mobilitarsi, le energie migliori hanno bisogno non solo dell’appello all’efficienza e alla meritocrazia, ma anche del riferimento ad un’idea orgogliosa di italianità, vista come un modo di vivere e di stare al mondo unico e originale”. E in questa idea orgogliosa di italianità rientra sicuramente anche la nostra antica e ricca tradizione di impegno nel volontariato e in genere nell’associazionismo, che vede su tutto il territorio nazionale migliaia di donne e uomini impegnati al servizio della comunità.

Il contributo del Terzo settore alla ripresa

L’esistenza di questa realtà straordinaria, di cui come italiani possiamo andare orgogliosi, è stata finalmente riconosciuta nel 21 anche dalla Costituzione, il cui art. 118 ultimo comma riconosce e legittima i cittadini attivi come alleati delle istituzioni nel perseguimento dell’interesse generale.
Sulle vicende che hanno portato all’approvazione di quella norma si rinvia all’approfondita ricostruzione di Giuseppe Cotturri nel volume Il valore aggiunto che abbiamo curato insieme per Carocci. Ma è importante qui mettere in rilievo che senza l’impegno delle organizzazioni della società civile quel principio forse non sarebbe mai entrato in Costituzione.
Non sono passati molti anni da quella mobilitazione e la lezione che se ne può trarre è valida anche per l’oggi. In sostanza, se il mondo del Terzo settore e in generale le organizzazioni della società civile decidono di essere fattore di innovazione, i risultati si vedono.
Oggi, se si riuscisse a collegare fra loro i tanti cittadini che già oggi, inconsapevolmente, applicano il principio di sussidiarietà, facendo loro comprendere che non sono isolati, ma sono parte di un fenomeno importante, di ampia portata, che potrebbe avere effetti fondamentali per il futuro dell’Italia.
Se altri, che oggi sono frenati dall’insicurezza, dallo scetticismo, anche dall’egoismo individualistico, capissero che è nel loro stesso interesse mobilitarsi per la cura dei beni comuni, perché vivere in una comunità con beni comuni di elevata qualità è meglio per tutti, anche per i ricchi.
Se le amministrazioni, soprattutto quelle locali, capissero che i cittadini non sono soltanto amministrati portatori di bisogni da soddisfare, ma anche alleati potenziali ricchi di risorse preziose, dalle idee alle competenze, dalle esperienze al tempo, risorse potenzialmente a disposizione della comunità e dell’amministrazione locale, purché quest’ultima abbia l’intelligenza e l’umiltà di saperle valorizzare.
Ecco, se il Terzo settore riuscisse a far sì che tutto questo si realizzasse, darebbe un contributo fondamentale alla rinascita dell’Italia. Ma come potrebbe farlo? Si avanzano qui due proposte, che sono ovviamente soltanto due fra le tante possibili.

Una campagna di comunicazione

Innanzitutto, c’è un problema enorme di informazione. Sembra quasi che le istituzioni, dopo aver inserito il principio di sussidiarietà in Costituzione, si siano pentite, avendo forse capito che la sussidiarietà opera un radicale ribaltamento dei rapporti fra soggetti pubblici e cittadini.
I cittadini attivi non delegano, fanno. E quindi spesso mettono in evidenza l’inerzia o l’incompetenza dei rappresentanti eletti e dei funzionari pubblici.
Sta di fatto che il principio è vigente ormai da dieci anni ma è praticamente sconosciuto sia al grande pubblico, sia a gran parte della classe dirigente politica e amministrativa. Una prima proposta riguarda quindi il lancio, con l’aiuto delle istituzioni, dei mezzi di comunicazione di massa e di Internet, di una campagna nazionale di comunicazione per far conoscere a tutti la possibilità di attivarsi prendendosi cura dei beni comuni del proprio territorio.
Si è usato di proposito il termine “comunicazione” e non “informazione” perché l’obiettivo dovrebbe essere non tanto quello di informare dell’esistenza del principio di sussidiarietà, quanto quello di convincere cittadini altrimenti poco propensi a mobilitarsi che non soltanto è possibile diventare cittadini attivi (informazione), ma che gli conviene (comunicazione). Nel comunicare, infatti, si trasmette una visione del mondo contando sul fatto che se questa visione è sufficientemente convincente i destinatari della comunicazione modificheranno di conseguenza i propri comportamenti.
La televisione, la radio e la stampa sono ovviamente strumenti essenziali per comunicare con grandi numeri di persone. Altrettanto cruciale è Internet, sia per comunicare, sia come strumento operativo per i cittadini attivi.
Un solo esempio di questa seconda valenza di Internet: negli Stati Uniti è possibile andare su un sito, inserire il proprio Cap e scoprire se nel proprio quartiere ci sono dei cittadini attivi con i quali collaborare. Il Terzo settore potrebbe quindi creare un social network della sussidiarietà per mettere in rete i cittadini attivi, singoli e associati, raggiungendo così finalmente anche i giovani, che ormai vivono in rete gran parte delle loro relazioni.

E una di formazione

Accanto a questa campagna di comunicazione le organizzazioni del Terzo settore dovrebbero lanciarne anche una, sia interna, sia esterna, di formazione alla sussidiarietà. Anche chi opera in queste organizzazioni a volte non è consapevole della portata rivoluzionaria del principio di sussidiarietà. Fare formazione fa bene sia a chi la fa sia a chi la riceve, dunque bisognerebbe incentivare il più possibile questa attività in tutte le organizzazioni della società civile, anche le più piccole.
Parlando di formazione il pensiero corre naturalmente alla scuola. Sotto questo profilo c’è un’opportunità molto importante rappresentata dall’insegnamento introdotto circa due anni fa e denominato Cittadinanza e Costituzione. Tutti gli studenti italiani, dalle elementari alle superiori, hanno adesso nel proprio piano di studi un’ora alla settimana, inserita nel programma di storia, di “educazione alla cittadinanza”. Per evitare che questo insegnamento faccia la fine della vecchia educazione civica bisognerebbe dargli un taglio il più possibile operativo, insegnando ai ragazzi ad essere cittadini attivi nel proprio quartiere e nella propria scuola, così come sta facendo appunto Labsus in due scuole superiori di Roma con un progetto denominato “Scuola di manutenzione civica dei beni comuni”, sostenuto dalla Fondazione Roma-Terzo Settore.

Una teoria giuridica ed economica dei beni comuni

La seconda proposta riguarda invece lo sviluppo della riflessione teorica sui beni comuni. Per questi beni non vale la dicotomia pubblico/privato, perché essi non sono né pubblici né privati. E dunque gli strumenti giuridici ed economici tradizionali non sono ad essi applicabili o comunque non completamente.
Considerata la centralità dei beni comuni dal punto di vista economico, sociale e civile e considerato quanto s’è detto sopra sulla necessità di una mobilitazione civica per la loro cura e il loro sviluppo, è essenziale che il Terzo settore si faccia carico di promuovere una riflessione approfondita sull’economia e il diritto dei beni comuni, un tema centrale anche a livello europeo.
Con il supporto delle Fondazioni interessate e quello di università e centri di ricerca si tratta di dar vita a progetti di ricerca di alto livello scientifico, che possano sostenere ed accompagnare sul piano teorico la mobilitazione civica di cui s’è detto. Perché una buona teoria, se è tale, serve alla pratica tanto quanto, se non di più, dei finanziamenti.
Entrambe le proposte sono evidentemente nell’interesse generale. Pertanto, applicando il principio di sussidiarietà esse dovrebbero avere il sostegno delle istituzioni, che secondo quanto previsto dalla Costituzione devono appunto favorire le “autonome iniziative dei cittadini per l’interesse generale”!

Un brutto momento

Non è la prima volta che dobbiamo affrontare delle difficoltà. Dopo la seconda guerra mondiale c’erano solo macerie, materiali e morali, eppure la generazione dei nostri padri ha saputo non solo ricostruire l’Italia, ma ha saputo anche inserirla a pieno titolo fra i grandi paesi industrializzati dell’Occidente, garantendo a milioni di italiani un benessere ed una prosperità diffusi come mai si erano visti nella nostra storia.
Abbiamo poi saputo superare senza eccessive limitazioni alle nostre libertà democratiche anche i terribili “anni di piombo”, con tutto il dolore e le lacerazioni che pure una minoranza violenta fu capace di infliggere ad un’intera nazione. Nel 1992 siamo riusciti a tirarci indietro (appena in tempo, ma ci siamo riusciti) dal baratro in cui stavamo per precipitare a causa della crisi delle nostre finanze pubbliche. Ed infine al momento dell’entrata nella moneta unica abbiamo dimostrato che se dirigenti autorevoli e credibili ci chiedono dei sacrifici per un obiettivo condiviso noi Italiani siamo capaci di sacrificarci come e più di tanti altri popoli.
Adesso siamo di nuovo in difficoltà, ma in maniera diversa da come lo siamo stati nelle situazioni precedenti. Non ci sono macerie da rimuovere, come dopo la guerra, né c’è un nemico da combattere, come negli anni del terrorismo, eppure c’è un malessere generale, una sorta di percezione diffusa che le cose non vanno. E’ come se da qualche tempo tutto si fosse colorato di grigio, sono aumentate l’insicurezza nel presente e l’incertezza del futuro. Soprattutto, non sembra esserci nessuno in grado di indicare una via d’uscita, degli obiettivi nobili e alti per cui valga la pena impegnarsi.
Come si è detto, non è certo la prima volta nella nostra storia che attraversiamo un brutto momento, ma questa volta il Paese sembra spossato, svuotato di energie, incapace di reagire.

Il futuro è un bene comune

Si tratta dunque di dare una scossa all’Italia, di ripartire, riducendo ingiustizie e disuguaglianze grazie ad una nuova fase di sviluppo, come quella che conoscemmo negli anni Sessanta. La responsabilità principale in questo senso spetta alla classe dirigente, chiamata così non a caso, perché il suo compito consiste nel guardare avanti, indicando una via d’uscita. In genere si identifica la classe dirigente con la politica, l’industria, la finanza, il sindacato… ma non con i soggetti organizzati della società civile. E invece i soggetti del Terzo settore sono a pieno titolo parte della classe dirigente di questo Paese, non certo nel senso dei privilegi, che non hanno, bensì delle responsabilità che tali soggetti si sono sempre accollati. Dunque, anche ad essi spetta indicare una via d’uscita, con gli strumenti e secondo i principi cui essi si ispirano: sussidiarietà, solidarietà e responsabilità.
La cittadinanza attiva, lo si è visto, si realizza prendendosi cura dei beni comuni, quei beni il cui arricchimento arricchisce tutti, ma il cui impoverimento impoverisce tutti. Sotto questo profilo anche il nostro futuro come singoli e come collettività è un bene comune di cui tutti dovremmo prenderci cura, perché dal fatto di avere un futuro più o meno ricco di possibilità dipende la “qualità” dell’unica vita di cui ciascuno di noi dispone.
La strada è lunga, c’è tanto da fare. Cominciamo subito, dunque, a prenderci cura del nostro futuro.