Il mondo cambia, dobbiamo guardare avanti e attrezzarci per tempo

Se il mondo cambia, che alternative abbiamo ai modelli di sviluppo tradizionali?

Il risanamento della situazione finanziaria è ovviamente la priorità , ma le misure per il risanamento e quelle per la crescita dovrebbero andare insieme, anche per ridurre il peso percentuale del debito pubblico sul Pil. Ed è comunque molto positivo che il bocconiano Monti abbia coniugato il tema della crescita insieme con quello dell’equità  sociale.

Ma il problema è proprio la crescita o, meglio, quale crescita, all’interno di quale modello di sviluppo. Perché se pensiamo che la crescita, nell’era post crisi, possa fondarsi di nuovo sul volano dei consumi come nel secondo dopoguerra, rischiamo di andare incontro ad un’amara delusione.

 

 

Il mondo cambia in fretta

 

I dati parlano da soli. Viviamo in un mondo in cui il 2 per cento della popolazione (fra cui noi italiani) consuma l’8 per cento delle risorse del pianeta. E’ un assetto profondamente ingiusto, che condanna centinaia di milioni di persone a vite indegne di esseri umani. Ma è un assetto che sta rapidamente cambiando.

Brasile, Russia, India e Cina stanno crescendo a ritmi paragonabili a quelli dell’Europa negli anni Sessanta. Il loro prodotto interno lordo aumenta ogni anno dell’8-1 per cento, mentre i paesi oggi più ricchi sono sostanzialmente fermi. Salvo eventi oggi imprevedibili, nel 22 la ricchezza prodotta dalla Cina supererà  la somma della ricchezza totale prodotta da Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. Lo stesso succederà  nel 23 per quanto riguarda la produzione dell’India.

Nello stesso periodo Brasile, Russia, India e Cina insieme supereranno complessivamente i sei paesi che oggi dominano il mondo, cioè i quattro europei più gli Stati Uniti ed il Giappone. Alla fine, nel 24, la Cina sarà  la prima potenza economica mondiale.

 

 

Le risorse?   Non bastano per tutti

 

Questi sviluppi produrranno molti cambiamenti, fra cui uno che avrà  effetti radicali sui nostri stili di vita. Se infatti grandi paesi abitati dal 42 per cento della popolazione mondiale crescono con questi ritmi, poiché le risorse del pianeta non sono infinite, qualcuno in qualche altra parte del mondo dovrà  diminuire i propri consumi. E quelli siamo noi.

L’assetto attuale nella ripartizione delle risorse mondiali ci ha consentito dalla fine della seconda guerra mondiale in poi di migliorare progressivamente il nostro tenore di vita, ma quell’assetto sta rapidamente cambiando. E alla fine produrrà  un impoverimento delle nostre società .

Ecco perché non basta dire che al risanamento deve accompagnarsi la crescita. E’ giusto, ma come potremo riprendere a crescere se non ci sono più le condizioni per il tipo di crescita su cui abbiamo fondato per decenni il nostro benessere?

 

 

Che brutte prospettive!

 

Se, come sembra purtroppo inevitabile, nei prossimi trenta anni andremo progressivamente impoverendoci, che effetto avrà  questo sul nostro modo di vivere, sui sistemi di welfare, sui rapporti all’interno delle nostre società  e, non ultimo, sui nostri sistemi politici?

Ci sono rischi concreti che l’impoverimento provochi maggiori disuguaglianze, accentuando la tendenza dei più forti a difendere i propri privilegi a danno dei settori più deboli, per esempio tagliando la spesa sociale e la spesa per la sanità . D’altro canto è possibile, anzi sta già  accadendo, che nei settori della popolazione più colpiti dal peggioramento delle condizioni di vita maturino sentimenti ostili nei confronti dei più poveri, dei diversi, degli stranieri, considerati come soggetti potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico. E questi sentimenti potrebbero essere ulteriormente alimentati dai cosiddetti ” imprenditori della paura ” , cioè forze politiche che fanno leva sul malessere sociale per aumentare i propri consensi. Tutto questo potrebbe a sua volta sfociare in una richiesta di maggiore sicurezza, anche a costo di qualche riduzione delle garanzie costituzionali dei diritti di cittadinanza.

Il quadro è a tinte fosche, ma non è irrealistico. Purtroppo questi fenomeni si sono già  verificati in passato, spesso con esiti disastrosi anche sul piano dei rapporti internazionali. La paura e la povertà  sono cattive consigliere e in qualche paese europeo potrebbero portare al potere personaggi disposti ad usare la forza per difendere gli interessi nazionali.

 

 

Con l’egoismo non ne usciamo

 

Ma proprio perché è già  successo, proprio perché siamo consapevoli, possiamo (dobbiamo!) fare in modo che non si ripeta, facendo leva su tutte le nostre risorse di intelligenza, di cultura, di esperienza.

Innanzitutto, il quadro delineato sopra è inevitabile se continuiamo a farci condizionare dalla cultura dell’individualismo che in questi ultimi venti anni è dilagata ovunque, fino a determinare ogni nostra scelta. Il berlusconismo come ideologia è stato anche questo, la celebrazione del successo fondato sull’egoismo, anziché sulla solidarietà . L’evidente conflitto di interessi del Presidente del Consiglio non è mai stato veramente un problema per l’opinione pubblica perché fare sempre e comunque i propri personali interessi, anche a spese degli interessi degli altri, è ormai da anni il modello di comportamento non soltanto accettato, ma da imitare.

Dunque, se il processo di impoverimento si compie nei prossimi anni sotto l’egemonia della cultura individualistica lo scenario futuro non può che essere quello delineato sopra. Per questo è indispensabile scalzare tale egemonia proponendo un’altra visione del mondo, fondata su una tradizione che in Italia ha radici ben salde, che nemmeno vent’anni di individualismo edonistico sono riuscite ad inaridire. Si tratta della tradizione di solidarietà  incarnata ogni giorno da migliaia di volontari e di cittadini attivi che concretamente dimostrano come si possa essere felici facendo non i propri interessi, bensìquelli degli altri. Anzi, che si possono fare (meglio) i propri interessi facendo anche quelli degli altri.

 

 

Poveri di scegliere, poveri di opportunità 

 

 

Perché la cosa interessante (e paradossale, nell’ottica della cultura individualistica) è proprio questa. Che impegnarsi per il bene comune conviene anche dal punto di vista della realizzazione degli interessi individuali.

Immaginiamo due famiglie identiche quanto a composizione, potere d’acquisto, status sociale, etc. Una vive in una regione del centro-nord, l’altra in una regione meridionale. Quale delle due è più ” povera ” , secondo il significato che a questo termine attribuisce Amartya Sen, cioè quale ha meno possibilità  di scelta rispetto ai propri progetti di vita? Purtroppo, come tutti sappiamo, la famiglia i cui componenti hanno meno opportunità  di realizzare il proprio ” pieno sviluppo ” (art. 3, 2 ° comma della Costituzione) è quella che vive al sud. A parità  di potere d’acquisto e di ogni altra condizione, la famiglia meridionale è più povera perché, a causa del contesto in cui vive, ha meno possibilità  di determinare il proprio futuro.

 

 

E’ il contesto che fa la differenza


E’ il contesto che fa la differenza, ancor più del reddito. E il contesto a sua volta è determinato da tre fattori fondamentali.

Innanzitutto i servizi pubblici, tutti, non soltanto quelli per i più poveri. Mobilità , sanità , istruzione, assistenza, ordine pubblico e tutti gli altri servizi alla cittadinanza sono cruciali per determinare un contesto in cui si hanno minori o maggiori opportunità  di realizzare le proprie scelte. In cui, detto in altri termini, si è più o meno poveri.

In secondo luogo il contesto è determinato dal capitale sociale, inteso come l’insieme delle risorse di tipo relazionale durature che un individuo o un gruppo può utilizzare, insieme con altre risorse, per perseguire i propri fini. Il capitale sociale è essenziale non soltanto per lo sviluppo personale, ma anche per quello economico di una comunità .

 

 

I beni comuni? Necessariamente condivisi

 

 

Infine, il terzo elemento fondamentale nella determinazione del contesto sono i beni comuni, quei beni che secondo la definizione della Commissione Rodotà  sono indispensabili per l’esercizio dei diritti fondamentali e lo sviluppo della persona. Come afferma Donolo ” I beni comuni sono un insieme di beni necessariamente condivisi. Sono beni in quanto permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione di problemi collettivi, la sussistenza dell’uomo nel suo rapporto con gli ecosistemi di cui è parte. Sono condivisi in quanto, sebbene l’esclusione di qualcuno o di qualche gruppo dalla loro agibilità  sia spesso possibile ed anche una realtà  fin troppo frequente, essi stanno meglio e forniscono le loro migliori qualità  quando siano trattati e quindi anche governati e regolati come beni ‘in comune’, a tutti accessibili almeno in via di principio ” .

 

 

Possiamo fare qualcosa? Eccome!

 

Per quanto riguarda la qualità  dei servizi pubblici non c’è molto che i cittadini possano fare, se non eleggere bravi amministratori e vigilare sulla loro attività . Ma anche amministratori efficienti e onesti sono costretti a tagliare i servizi ai cittadini se le risorse calano, con le conseguenze per la qualità  della vita che tutti possiamo constatare ogni giorno nelle nostre città .

Invece i cittadini possono fare molto per incrementare il capitale sociale e per prendersi cura dei beni comuni. In particolare, tutti possono imparare ad usare i beni comuni in maniera non distruttiva, facendo in modo che anche altri possano usufruirne per realizzare i propri progetti di vita. Poi (e qui entra in gioco la sussidiarietà ) l’altra cosa che i cittadini possono fare è prendersi cura dei beni comuni del proprio territorio, in modo da svilupparli e arricchirli, nell’interesse proprio e altrui.

 

 

Dalla ricchezza privata alla ricchezza condivisa

 

E qui torniamo a quanto si diceva prima. Prendersi cura dei beni comuni conviene anche dal punto di vista degli interessi individuali, perché dalla qualità  dei beni comuni dipende la qualità  delle nostre vite. E poiché i servizi pubblici hanno già  subito tagli pesanti e ancor più ne subiranno in futuro, è sul capitale sociale e sui beni comuni che dobbiamo puntare per ” governare ” l’inevitabile processo di impoverimento.

Già  adesso i giovani e le fasce più deboli della popolazione non hanno margini per accumulare privatamente ricchezza, come invece hanno potuto fare le generazioni precedenti. Anche   per questo, se diminuisce la ricchezza privata, diventa indispensabile sviluppare, proteggere e incrementare la ricchezza condivisa, cioè i beni comuni.