Bisogna recuperare la funzione rieducativa della pena coinvolgendo i detenuti nella cura dei beni comuni

"Abbiamo bisogno di un sistema penale che superi l'idea della centralità  della pena detentiva, che torni a credere nelle persone e nel cambiamento"

Quale emergenza?

I giornali titolano periodicamente sull’emergenza carceri, ma l’emergenza non esiste. C’è una situazione cronica e ormai sistematica di violazione dei diritti umani e di illegalità  che ci è costata più volte il richiamo internazionale. L’ultimo è di gennaio, quando la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante nei confronti di sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza che avevano presentato ricorso e a pagare 1mila euro per danni morali. I giudici della Corte europea hanno definito il problema del sovraffollamento carcerario in Italia di natura strutturale e hanno dato un anno di tempo al nostro paese per rimediare alla situazione e mettersi in regola. Intanto altri 55 detenuti hanno già  presentato ricorso.

Il carcere vive nell’illegalità 

Il carcere, simbolo della legalità , vive nell’illegalità . Al suo interno i diritti non sono rispettati.

I piani carcere che in questi anni sono stati annunciati e varati hanno portato alla situazione attuale: 65.917 detenuti rinchiusi nello spazio previsto per accoglierne 47.45. il che significa che ci sono 18.872 persone di troppo. I detenuti dormono per terra, non ci sono più spazi comuni, i letti a castello sono anche su tre livelli. Restano chiusi in cella per 2 ore al giorno, con i turni per stare in piedi, annullando ogni funzione rieducativa della pena.

Il decreto cosiddetto svuota carceri che prevede la possibilità  di scontare gli ultimi diciotto mesi di pena in detenzione domiciliare, ha mostrato da subito i suoi limiti. I 1.439 detenuti che ne hanno usufruito sarebbero ugualmente usciti grazie alle altre misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario.

Occorre una svolta decisa e coraggiosa che parta dalla testa e non dalla coda. Che non miri a svuotare dopo aver riempito all’inverosimile mettendo sullo stesso piano tutti i reati, ma che punti a ridurre le carcerazioni, che intervenga sui flussi in ingresso e in uscita, cioè agendo su quelle leggi che producono carcerazione senza produrre sicurezza.

Tre leggi per cambiare

Le associazioni che a vario titolo operano nell’ambito del carcere e della giustizia (Antigone, Volontari In Carcere, A Buon diritto, Ristretti orizzonti, A Roma insieme, Associazione giuristi democratici, Cnca, Unione camere penali italiane, Cgil- Fp, Conferenza nazionale volontariato giustizia e altri) hanno avanzato tre proposte di legge di iniziativa popolare per ripristinare la legalità  internazionale e costituzionale nell’ambito del sistema penitenziario.

Nel rapporto del Consiglio d’Europa, l’Italia è al secondo posto per il maggior numero, in termini assoluti, di condannati in via definitiva per reati connessi alla droga: 14.868 su 37.622, quasi il 4%. Occorre una modifica della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, superando il paradigma punitivo, depenalizzando i consumi, diversificando il destino dei consumatori di droghe leggere da quello di sostanze pesanti, diminuendo le pene, restituendo centralità  ai servizi pubblici per le tossicodipendenze.

La seconda proposta di legge interviene in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento attraverso: il rafforzamento del concetto di misura cautelare intramuraria come extrema ratio per porre fine al ricorso sistematico al carcere nella fase cautelare come forma di pena anticipata prima del processo; l’abrogazione del reato di clandestinità ; il ripristino della possibilità  di accesso ai benefici penitenziari e azzerando tutti gli aumenti di pena portati dalla legge Cirielli; prevedendo che nessuno possa entrare in carcere se non c’è posto; mettendo mano al sistema delle sanzioni diversificandolo, introducendo il meccanismo della messa alla prova.

Infine, la terza proposta vuole sopperire a una lacuna normativa grave: l’introduzione del reato di tortura, che in Italia manca nonostante vi sia un obbligo internazionale in tal senso.

Una nuova giustizia

Tre leggi per cominciare a fare sul serio, tre leggi per ricominciare a pensare alla giustizia penale senza strumentalizzazioni e senza demagogia.

Ma non è solo questione di numeri e di metri quadrati. Il carcere fine a se stesso produce solo recidiva: il 69% dei detenuti torna a delinquere, ma questa percentuale scende al 19% quando dal carcere comincia un percorso verso il fuori, fatto di uscite, relazioni che rinascono, lavoro, sostegno esterno. In altre parole quando la pena si trasforma in un progetto, il risultato anche in termini di sicurezza cambia profondamente.

Abbiamo bisogno di un sistema penale che superi l’idea della centralità  della pena detentiva, che torni a credere nelle persone e nel cambiamento, che restituisca dignità  e diritti anche a chi ha sbagliato, che offra loro e pretenda da loro un percorso per tornare a essere pienamente cittadini, che si interessi realmente delle vittime. Bisogna puntare sulla funzione rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione) con l’impegno da parte delle istituzioni di coinvolgere i detenuti nella cura dei beni comuni. Una giustizia che faccia proprio il proverbio sudafricano che apre il libro di Desmond Tutu sull’esperienza della Commissione per la Verità  e la riconciliazione del Sudafrica: “Ai processi si va con un ago per cucire e non con coltello per tagliare”.

La giornata della restituzione, proposta ai detenuti di Bollate, che consisteva nella pulizia della zona dell’idroscalo, va proprio in questa direzione: intesa come atteggiamento volto a ricucire una ferita aperta dal reato. Cosìcome il caso del progetto Agorà  che ha visto i detenuti del carcere di Alessandria partecipare ad un ciclo di seminari sui beni comuni. Il progetto nasce infatti con l’obiettivo principale di “intensificare il legame tra la realtà  carceraria ed il territorio, facendo in modo che la struttura penitenziaria diventi una risorsa per il territorio stesso”. Si tratta di percorre la strada di una giustizia nuova, una giustizia riparativa e non retributiva, tesa a costruire una società  migliore, conciliata, che dia attenzione e dignità  alle vittime e al loro dolore, che dia speranza ai colpevoli e alla società  intera.

“Immaginando un parallelo tra gli articoli costituzionali 118 e 27, le istituzioni in ambito penale non hanno solo il dovere di ‘favorire’, ma l’obbligo di realizzare la riabilitazione del condannato“. Perché “quella dei beni comuni e del lavoro di carattere sociale appare una cura efficace: il detenuto può sentirsi parte attiva ed integrante della società  anche durante l’espiazione della pena, permettendo una reale possibilità  di reinserimento sociale” (Vedi “Restituire dignità  ai detenuti attraverso la cura dei beni comuni“, in Labsus Editoriali – Fabrizio Rostelli).