Ad aprire i lavori la presidente del CESV Francesca Danese, che ha subito messo in luce come la partecipazione civica dei migranti, pur essendo una pratica di cittadinanza possibile anche in assenza dello status giuridico, non raggiunga livelli soddisfacenti. Giovanni Moro, presidente di Fondaca, ha illustrato i dati raccolti dalla fondazione in una ricerca, svolta nel 29-21, sulla presenza dei migranti nelle associazioni della cittadinanza attiva.
Le informazioni raccolte sono state concentrate su tre tipi di associazioni:
- associazioni della società civile
- associazioni civiche pro-migranti
- associazioni civiche mainstream
Per le prime è emersa una bassa presenza di migranti, in poche associazioni e con scarse funzioni di leadership. Infatti, in più del 7 percento delle organizzazioni non focalizzate, la presenza dei migranti nella membership non supera il 5 percento del totale degli affiliati. Tenendo presente che i migranti sono il 6 percento della popolazione e che tali organizzazioni dovrebbero essere il primo luogo di socializzazione che incontrano, il dato è tutt’altro che incoraggiante. Tra l’altro si tratta di un’attività retribuita più che volontaria.
Nelle associazioni civiche pro-migranti, nonostante la focalizzazione, 3 organizzazioni su 31 non vedono la presenza di stranieri. In media ve ne sono otto per organizzazione, soprattutto donne. Nella maggior parte dei casi svolgono mansioni di mediazione culturale o di orientamento, più che mansioni legate al funzionamento della struttura, che potrebbero consistere nella valorizzazione o nell’acquisizione di competenze. Sembra essere richiesto loro di “fare gli immigrati”, cioè occuparsi di se stessi, piuttosto che di valorizzare qualità e capacità personali. In sostanza, le organizzazioni focalizzate sembrano essere più un punto di incontro tra domanda e offerta di lavoro che un luogo di pratiche di cittadinanza, cosi come le organizzazioni della società civile non emergono come luogo di socializzazione alla cittadinanza e di integrazione civica.
Perchè questa poca presenza? Si può ipotizzare l’esistenza di ostacoli cognitivi e operativi, sia sul versante dei migranti che su quello delle organizazzioni. Per i primi si pongono problemi di scarsa conoscenza della lingua, scarsa consapevolezza del valore della partecipazione, eccessiva focalizzazione sul voto e sulla cittadinanza legale, nonchè mancanza di tempo. Le seconde, invece, mostrano spesso atteggiamenti di chiusura verso i nuovi associati o sono strutturate per l’assistenza e non per l’accoglienza.
In alternativa, o in aggiunta, si può ipotizzare un deficit di risorse per la partecipazione, quali risorse materiali, motivazioni e offerte da parte delle organizzazioni.
Esperienze personali
Il seminario organizzato dal CESV Lazio e da Fondaca si è concluso con gli interventi di Marieclaire Safari e Marco Wong. La presidente della Umubyeyi Mwiza Onlus Ngo, associazione che si occupa dei sopravvissuti ai crimini del Ruanda, ha evidenziato i principali ostacoli alla partecipazione. “In mancanza di documenti – ha asserito – ci si nasconde e viene a mancare la partecipazione alla vita sociale anche se magari se ne ha voglia”. Il permesso di soggiorno, dunque, vincola gli stranieri da qualunque loro ambizione. La stessa situazione economica, che li vede spesso lavorare in nero, certamente non agevola la loro partecipazione civica. Del resto l’obiettivo primario che spinge gli stranieri è il lavoro o lo studio, non di certo il volontariato. Ma anche volendo attivarsi nel sociale essi non dispongono di qualcuno che gli spieghi ‘come’ partecipare, trovando spesso scarsa fiducia nei loro confronti. Occorre, perciò, che gli italiani accompagnino, guidino e spieghino agli stranieri cosa fare, per uno scambio reciproco.
Secondo il presidente onorario di Associna, la principale causa della scarsa partecipazione civica dei migranti sarebbe, invece, la mancanza di azione positiva e propositiva da parte delle istituzioni. Accusata di essere più chiusa delle altre, la comunità cinese di Roma si dipana in organizzazioni autoreferenziali, che si rivolgono alla comunità stessa o comunque a istituzioni cinesi come l’ambasciata. Se però si paragona la situazione italiana con quella di altri paesi non sembra che la causa risieda nella volontà dei cinesi di chiudersi. Anche in quei paesi dove il flusso migratorio cinese è abbastanza recente, essi godono di pieni diritti e sono attivamente impegnati nella comunità . Se si pensa al premio Nobel per la letteratura di origine cinese in Francia o al capo della polizia cinese di Vancouver, è indubbio che siano le nostre istituzioni a non essersi attrezzate a fare i conti con una realtà che cambia, comportando problemi di opportunità che non vengono prodotte, e di ostacoli che non vengono abbattuti.
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