Il regime dominicale delle infrastrutture idriche

La demanialità  contempera l'appartenenza comunitaria dei beni con la soddisfazione plurima dei bisogni collettivi


La sentenza

La Corte costituzionale ha dichiarato nella presente sentenza l’incostituzionalità  di alcune disposizioni legislative della Regione Lombardia (commi 2 e 4 dell’art. 49 della l. r. 12 dicembre 2003, n. 26, introdotti dall’art. 1, c. 1 della l. r. 27 dicembre 2010, n. 21) che stabilivano la possibilità  per gli enti locali di costituire una società  patrimoniale d’à mbito cui conferire la proprietà  delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali del servizio idrico integrato. Qualora espressamente stabilito, tali società  avrebbero anche potuto espletare: a) le gare per l’affidamento del servizio, b) l’attività  di progettazione preliminare delle opere infrastrutturali relative al servizio idrico integrato, c) l’attività  di collaudo delle stesse, in sostituzione dell’ente responsabile dell’à mbito territoriale ottimale.
Tali previsioni normative sono state ritenute in contrasto con l’art. 117, c. 2, lett. l) Cost. e dunque lesive della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile. Esse infatti toccano la disciplina della proprietà  di beni del demanio accidentale degli enti pubblici territoriali ed in particolare dei beni strumentali alla fornitura del servizio idrico integrato, per i quali il comma primo l’art. 143 del d.lgs. 152/2006, nel dettare la normativa specifica di settore, conferma la natura demaniale. Secondo quanto stabilito da tale disposizione, «[g]li acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà  pubblica, fino al punto di consegna e/o di misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli art. 822 e seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge ».
Il legislatore regionale, pur non ignorando tali disposizioni, faceva appello al comma 13 dell’art. 113 del d.lgs. 267/2000 (TUEL), che prevedeva la possibilità  di conferire la proprietà  degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinate all’esercizio dei servizi pubblici a società  il cui capitale, interamente pubblico, era incedibile. Tale disposizione era stata tuttavia oggetto di abrogazione tacita da parte del comma 11 dell’art. 23 bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 per incompatibilità  con il suo comma 5, il quale stabiliva a sua volta che solo la gestione delle reti poteva essere affidata a soggetti privati mentre rimaneva ferma la loro proprietà  pubblica.

Il commento

La ragione per cui tale pronuncia della Corte costituzionale desta particolare interesse è legata alla sua stretta continuità  con due precedenti sentenze della medesima corte del 2010, la n. 273 e la n. 325 (entrambe commentate in questa rivista). In particolare la prima delle due pronunce, sebbene non espressamente richiamata nel dispositivo della sentenza in commento, si riconnette a quest’ultima perché perfettamente in linea con il filone interpretativo che lìsi palesava in relazione al particolare regime giuridico della risorsa idrica, da cui discenderebbe in maniera quasi obbligata anche quello delle reti ed infrastrutture necessarie alla fornitura del servizio idrico integrato. Infatti, la natura demaniale tanto dell’acqua, in quanto risorsa, che delle fognature, degli acquedotti, degli impianti di depurazione e via dicendo trova la sua giustificazione non nell’esigenza di affermare in sé e per sé un dominio dell’autorità  pubblica, quanto in quello di mettere in luce la prevalenza del profilo di regolazione amministrativa della fruizione di beni che sono della collettività . Per questo in dottrina, ancor prima che questa sentenza venisse pronunciata, si è parlato[1] di demanio idrico integrato allo scopo di evidenziare il parallelismo tra il regime proprietario del bene naturale e quello dei beni artificiali quali le infrastrutture strumentali all’erogazione del servizio. La necessità  di trovare la giusta regolazione dei diversi usi (civili, agricoli e industriali) in ossequio al criterio solidaristico stabilito già  nella l. 5 gennaio 1994, n. 36 richiede che l’autorità  amministrativa svolga un ruolo di garante, in un’ottica di preservazione qualitativa e quantitativa della risorsa. Il legislatore statale ha ritenuto che ciò possa avvenire solo impedendo che la proprietà  delle infrastrutture che garantiscono tale risultato passino in proprietà  di soggetti privati. Come infatti ricordano i giudici nella sentenza in commento, anche qualora si tratti di società  il cui capitale sia totalmente pubblico, dunque solo formalmente private, ciò non toglie che il loro patrimonio sia destinato a circolare liberamente e a costituire, in extrema ratio, anche garanzia generica dei creditori ai sensi dell’art. 2740 cod. civ.
Come si afferma nella sentenza n. 273/2010, anche in questa circostanza tuttavia «[n]on viene in rilievo la contrapposizione tra lo Stato, proprietario del bene, ed i privati, ma l’integrazione tra pubblico e privato, nel quadro della regolazione programmata e controllata dell’uso dell’acqua, che costituisce bene di tutti » e delle sue infrastrutture. La distribuzione e la salvaguardia delle risorse idriche non può che avvenire nel rispetto di criteri razionali ed imparziali stabiliti da apposite regole amministrative. Dunque, le norme che stabiliscono il regime demaniale delle acque e delle infrastrutture del servizio idrico sono poste a tutela non tanto della proprietà  pubblica in sé e per sé, ma dell’esigenza di contemperarne la natura di beni della comunità  con la destinazione a soddisfare bisogni domestici e produttivi collettivi.
Quanto alla sentenza n. 325/2010, l’elemento di continuità  si trova sul versante del regime giuridico del servizio idrico integrato in quanto servizio di interesse economico generale. In entrambe le sentenze si afferma questo carattere, che fa sìche il servizio in questione possa essere oggetto tanto di affidamento a privati tramite apposite gare che a gestione diretta attraverso le forme imprenditoriali che può assumere l’in-house providing. Ma ciò non può né incidere sul regime dominicale delle infrastrutture serventi il servizio idrico integrato, né sull’espletamento delle gare per l’affidamento del servizio e la parallela concessione delle reti e degli impianti necessari alla sua erogazione. In altri termini, queste procedure non possono essere delegate ad un soggetto privato, sebbene nella forma di società  a capitale totalmente pubblico costituita da un numero di comuni altamente rappresentativo di quelli costituenti l’à mbito territoriale ottimale. Ciò determinerebbe, in primo luogo, un sacrificio intollerabile dei fondamentali principi, posti a garanzia della collettività , di imparzialità , trasparenza, economicità , efficienza ed efficacia; principi che dirigono invece l’azione discrezionale della pubblica amministrazione ed il cui mancato rispetto è sanzionabile dal giudice. In secondo luogo, verrebbe meno l’unitarietà  dell’ordinamento giuridico statale in un settore che necessita di una disciplina   uniforme su tutto il territorio nazionale, sia allo scopo di garantire uguali condizioni di partenza agli operatori economici che competono per aggiudicarsi il servizio, sia per assicurare ai cittadini la sussistenza dei presupposti per un servizio realmente universale, dunque accessibile a tutti, con prestazioni di livello uniforme.

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[1]     Bartolini A., Le acque tra beni pubblici e servizi pubblici, in Giust. Amm., 6, 2006, 1035.