Un testo a cura di Fabio Carnelli e Stefano Ventura

L ' intera branca dello studio dei disastri dovrebbe riflettere,con urgenza e criticamente, su come i propri saperi possano essere messi al servizio della società 

Il libro è stato pensato e preparato, quindi scritto e pubblicato all’indomani di due importanti sentenze giudiziarie. La prima è del 2012, una condanna per omicidio colposo plurimo e lesioni rivolta contro i membri della  Commissione Nazionale Grandi Rischi riunitisi all’Aquila prima della drammatica scossa del 6 aprile 2009; tecnici e scienziati condannati – per negligenza nel proprio mandato istituzionale – a 6 anni di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici e all’obbligo di risarcire fino a 450.000 euro le famiglie delle vittime. La seconda sentenza, datata 10 novembre 2014, è invece una sentenza di primo grado della Corte di Appello con cui è stato ribaltato il precedente giudizio, annullandone i capi di accusa.

La vicenda giudiziaria dell’Aquila

La contraddittoria vicenda giudiziaria dell’Aquila concerne la responsabilità  (scientifica e istituzionale) di valutare il rischio e darne corretta comunicazione, in modo da facilitare la presa di decisione pubblica in caso di terremoto. Se si leggono le due sentenze, tuttavia, è facile rendersi conto che in gioco è anche un confronto tra expertise tecnico-scientifiche in sede processuale, che fa emergere una distanza disciplinare nell’analisi e valutazione di cosa significhino termini quali ” vulnerabilità  ” , ” rischio ” , ” previsione ” , ” mitigazione ” .

Il giudice Marco Billi nella prima sentenza rimproverava ai membri della CGR di essersi attenuti a una visione esclusivamente fisica del terremoto, appellandosi conseguentemente alla propria impossibilità  di previsione. Gli scienziati a suo giudizio non avrebbero ottemperato alla loro responsabilità  istituzionale, che era quella di valutare opportunamente la probabilità  del rischio (e non il terremoto in sé), e di comunicare a chi compete i fattori di vulnerabilità  ed esposizione del contesto locale. Tra questi non andavano inclusi solo gli aspetti fisico-tettonici e ingegneristici, ma anche la percezione locale del rischio e la possibile risposta della popolazione aquilana al terremoto. Nel corso del processo infatti, per assolvere i membri della CGR dalle loro responsabilità , non è bastato dichiarare che l’unico modo per salvare vite umane in caso di una scossa sismica di alta magnitudo sia mettere preventivamente in sicurezza gli edifici. La vulnerabilità  include anche tutto un insieme di fattori socio-culturali che possono favorire o inibire una corretta prevenzione. Competenze queste che la perizia antropologica di Antonello Ciccozzi (2013) richiesta dal pubblico ministero Fabio Picuti aveva fatto emergere in aula di tribunale.

I saperi scientifici e quelli delle scienze umane e sociali

Gli esperti chiamati a esprimere il loro parere nel corso della riunione tecnica all’Aquila erano prevalentemente geo-fisici e tecnici della protezione civile. Questo palesa un’evidente debolezza. I saperi che provengono dalle scienze umane e sociali hanno, infatti, contribuito a ridefinire – negli anni – sia la nozione di catastrofe sia gli strumenti più idonei per una corretta prevenzione, dando enfasi – per esempio – agli aspetti politici e culturali del rischio e rileggendolo in chiave retrospettiva, processuale e relazionale, come fanno antropologie storici, tra gli altri. Questi saperi però non sono ancora stati equiparati in termini di rilevanza scientifica, utilità  sociale e legittimità  pubblica a quelli di ” scienze ” più accreditate, in primis la sismologia. E’ in direzione di una riduzione di questo gap che si muove, a mio parere, il volume a cura di Carnelli e Ventura, attraverso un confronto franco, a più voci, tra sismologi, ingegneri, urbanisti, storici, antropologi, pedagogisti, geografi, esperti di comunicazione pubblica. La ” voragine del rapporto tra conoscenza scientifica, comunicazione di massa e bisogno sociale di sicurezza ” (Clemente 2013: 7) può essere colmata solo proseguendo in questa direzione.

Non bisogna dimenticare però che nell’ultimo ventennio (lo ricordano anche alcuni autori nel volume) non è radicalmente mutato solo il rapporto tra potere politico e conoscenza scientifica sui disastri, ma anche la relazione che i cittadini e la società  civile organizzata intrattengono con questi poteri e saperi. Se le informazioni circa il rischio connesso alle calamità  naturali hanno innegabili ricadute sociali, rispetto a tali ricadute il ruolo proattivo e perfino contrastivo della cittadinanza è difatti aumentato. Oggi le informazioni sul rischio si propagano più rapidamente e spesso senza filtri tra la popolazione per via dell’apporto delle nuove tecnologie, come spiega bene Fabrizia Petrei nel suo contributo.

Ripensare le conoscenze sul rischio sismico

Per questo le conoscenze sono anche, più facilmente del passato, oggetto di appropriazione, rielaborazione e contestazione diretta da parte della gente. Oggi i movimenti sociali che sorgono tra i sopravvissuti possiedono saperi se non equivalenti almeno tali da mettere in questione le decisioni pubbliche che gli esperti contribuiscono a formare. Il divario tra scienziati e cittadini si è accorciato. Se è vero che i primi ” danno consigli ai governi su qualsiasi ambito d’intervento politico, giocando un ruolo fondamentale nello stato moderno ” (Hilgartner 2000: 3); se è vero che la perizia scientifica sui grandi rischi è una ” fonte ubica di autorità  nelle società  occidentali ” (ibid: 4), essa però non sortisce più un rispetto indiscusso. Le occasioni in cui le conoscenze scientifiche e le decisioni tecniche possono essere apertamente sfidate sono destinate ad aumentare. E’ per questo che un volume traversale come Oltre il rischio sismico dovrebbe quanto più possibile circolare, circolare nelle scuole – l’educazione scolastica è fondamentale (Silvia Nanni lo afferma giustamente nel suo contribuito) -, ma circolare capillarmente anche nei luoghi di lavoro, nei centri di aggregazione, negli spazi in cui viene messa in opera la cittadinanza.

E’ innegabile che il variegato universo scientifico delle catastrofi naturali, di cui in questo volume abbiamo uno spettro abbastanza ampio di rappresentanti, debba ripensare in modo più consapevole i modi in cui le conoscenze sul rischio sismico sono prodotte, distribuite socialmente e trovano legittimazione politico-istituzionale. L’intera branca dello studio dei disastri dovrebbe riflettere,con urgenza e criticamente, su come i propri saperi possano essere messi al servizio della società ; che vuol dire poi contribuire a ridurre la sofferenza sociale, sempre disegualmente distribuita. Il che obbliga ad assumerci le nostre responsabilità  non solo a livello individuale, ma anche collettivamente, in modo condiviso e inclusivo, come argomenta Lina Calandra in chiusura del volume. Per difendere la legittimità  dei nostri saperi non serve una reazione corporativa. L’autorialità  delle scienze dei disastri va coltivata con senso critico, non semplicemente presidiata, e va rivendicata nell’arena pubblica, non solo nei consessi scientifici o all’interno degli spazi istituzionali.

Le responsabilità  sociali della scienza

Tra le righe dei diversi contributi presenti nel libro si legge inoltre una comune preoccupazione: quando il palcoscenico della rappresentazione cui gli esperti dei disastri sono chiamati a intervenire prende il sopravvento, il rischio non è solo che si prendano decisioni sbagliate, ma che non si prendano per nulla decisioni. Queste, infatti,sono notoriamente assunte nel back-stage e non sugli spalti della politica. E’ la cura del retroscena che bisogna mantenere nell’affinamento delle conoscenze e al tempo stesso in una sana coltivazione delle responsabilità  sociali della scienza. Altrimenti, non c’è da stupirsi se questi spazi di responsabilità  diventano ambigui e scivolosi, le zone di comunicazione pubblica poco chiare e il nostro ruolo screditato. Mi pare questo, in fondo, il messaggio principale che si ricava da questo denso volume, che più che fornire risposte definitive, apre dubbi e interrogativi, e soprattutto terreni di confronto imprescindibili.

Mara Benadusi insegna  “Antropologia culturale” nel Corso di Laurea interclasse in Sociologia e Servizi Sociali, Facoltà  di Scienze Politiche dell’Università  degli Studi di Catania.

Bibliografia

HilgartnerS. (2000), Science on Stage: Expert Adviceas Public Drama,Stanford: Stanford University Press
Ciccozzi A. (2013), Parola di Scienza. Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi. Un’analisi antropologica, Roma: Derive e Approdi
Clemente P. (2013), ” Il terremoto come frattura della modernità  ” , in Ciccozzi A., op. cit.: 5-18

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