"La fabbrica era il nostro posto nel mondo. Era come un castello delle favole. Io quando ci entravo dentro mi sentivo più forte. Lavoravo, ma la fatica non la sentivo, perché pensavo ai desideri che volevo realizzare, perché la fabbrica era l ' unico modo per realizzarli quei desideri".

Ormai pensionati, decidono di aprirne i cancelli per ” dare una sbirciatina ” , sebbene derisi da quelli che un tempo erano i loro padroni, ora fautori della scelta di demolirla, trasformandola in un enorme campo da golf, dimentichi del simbolo che l’edificio ha rappresentato per gli abitanti del quartiere. Per i tre amici è diverso: la fabbrica non è affatto vecchia. Piuttosto, il ricordo di una quotidianità  trascorsa al suo interno è ancora vivo, come anche gli odori, i rumori e la “pelle liscia” della Fiat 131; ogni oggetto all’interno delle mura dello stabilimento parla dei protagonisti.  Di nuovo davanti ai cancelli, come quando in 70mila erano scesi in piazza per protestare contro l’introduzione dei robot, i tre decidono di occupare la fabbrica ed è a questo punto che la nostalgia lascia il posto alla speranza.

La metafora della giostra

Tu non sai cosa vuol dire stare davanti a un computer nove ore ” .
So cosa vuol dire nove ore in piedi alla catena di montaggio ” .
Duecento email al giorno ” .
Cento pezzi così, all’ora”.
(Dialogo tra Franco e suo figlio)

E’ notte quando si apre l’imponente cancello del reparto Presse e il grande interruttore, acceso tutti i giorni prima dell’ingresso delle migliaia di operai, dà  inizio alla metafora.
Franco, Carlo e Delfino hanno bisogno di un nuovo inizio così, attraverso il legame con i nipoti, rivivono il proprio con la fabbrica, cercando di colmare il vuoto derivante dall’incomunicabilità  con i rispettivi  figli, che di lavoro non vogliono saperne.

La giostraPresse, ganci e bracci meccanici diventano pezzi di una grande giostra, la catena di montaggio. Tra luci e suoni ecco gli operai trottare a cavallo tra le automobili, saltare tra i carrelli come gli indiani o indossare maschere come mostri.  Di nascosto, i piccoli Fabio e Clio si lasciano guidare nel lunapark dipinto dai nonni, condividendone l’entusiasmo.  Solo loro sembrano comprendere a fondo le motivazioni che spingono Franco, Carlo e Delfino a restituire gli spazi Fiat al quartiere.  La fabbrica per i tre ex operai ha significato la vita e forse proprio per questo il sogno riesce a realizzarsi.

La fabbrica e il recupero della memoria

Nonno, ma perché occupi la fabbrica ” ?
Perché la fabbrica era il nostro posto nel mondo. Non hai capito?
Era come un castello delle favole. Io quando ci entravo dentro mi sentivo più forte. Lavoravo, ma la fatica non la sentivo, perché pensavo ai desideri che volevo realizzare, perché la fabbrica era l’unico modo per realizzarli quei desideri.
Pure quando tornavo a casa, uno alla volta quei sogni li vedevo realizzare
” .
(Dialogo tra Carletto e suo nipote)

Mirafiori Lunapark è l’opera prima  di Stefano Di Polito, giovane regista torinese che, nato da operai dello stabilimento Fiat, l’omonimo quartiere lo ha nel cuore. Come egli  stesso afferma, si tratta di “una favola” che, però, ben descrive il sentimento di quegli anni. Scena Mirafiori LunaparkAnni in cui la fabbrica ha rappresentato per migliaia di operai l’unico mezzo attraverso cui trovare un posto nella società , per poter garantire alla propria famiglia una vita dignitosa e veder possibile per i propri figli un futuro migliore; un luogo  in cui ci si sentiva motori di un progresso, non solo tecnologico, ma anche sociale e culturale, che giorno dopo giorno si andava costruendo; un centro propulsore entro cui rivendicare, grazie al forte senso di appartenenza, i propri diritti.
Lo stabilimento Fiat ripensato, prima ancora che per la sua funzionalità  tecnica, per la creazione di un tessuto urbano e sociale. Riqualificarlo  vuol dire, dunque, risanare una frattura, rimettere al suo posto il tassello mancante di un puzzle; conservare e, al tempo stesso, ricostruire la  memoria collettiva di un quartiere, dell’Italia intera e di una cultura del lavoro che oggi non c’è più.  Nella Torino in cui le zone  industriali sono, ormai, diventate aree dismesse, il recupero dello stabilimento Mirafiori volta le spalle alla nostalgia, per guardare al futuro. Il simbolo che quella fabbrica porta con sé resta, cambia solamente l’impatto visivo.

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