Il 27 maggio 2016 il Ministero del Lavoro, il Ministero dell’Interno e il Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali sottoscrivevano il Protocollo sperimentale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, da applicarsi nell’ambito di sette territori prioritari individuati dal Ministero dell’Interno: 3 di essi (Bari, Foggia e Lecce) sono in Puglia.
Qui le cronache giudiziarie, a partire dal 2011, hanno registrato condizioni di sfruttamento della manodopera bracciantile che oltrepassavano la violazione contrattuale e l’intermediazione illecita, fino a configurarsi come riduzione in schiavitù. Solo per citare alcuni: le proteste dei migranti per le condizioni indegne nel ghetto di Nardò nel 2011, i 6 arresti per il caso di Paola Clemente morta di fatica nei campi il 13 luglio 2015, la chiusura del Gran Ghetto di Rignano disposta dalla Regione Puglia nel marzo 2017, gli arresti disposti il 19 giugno 2017 dalla Procura di Brindisi, in seguito a contestazione a un uomo e tre donne dei reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro pluri-aggravati.
In questa cornice, e negli stessi giorni in cui veniva approvata le Legge 199 del 2016[1] (meglio nota come Legge anti-caporalato), Cambia Terra iniziava la sua indagine sulla condizione femminile in agricoltura nel sud-est barese. La ricerca ” Donne, madri, braccianti ” [ indaga la debolezza sociale delle donne come un fattore multidimensionale, dalla dimensione socio-occupazionale alla pressoché assente auto-rappresentazione per categoria professionale.
Verso un sistema di comunità coese
Il rapporto costruisce una narrazione che parte dai dati, per poi aprire all’analisi qualitativa, composta da testimonianze dirette e un approfondimento sulle cause dei rapporti di forza sul lavoro e nella società . Nel 2013, secondo i dati sul lavoro sommerso in agricoltura della Direzione regionale del lavoro, il 54% di irregolarità lavorativa su base regionale si registrava nella provincia di Bari. Un territorio in cui l’avanzamento produttivo[2] non è in relazione con sistemi di welfare adeguati alle lavoratrici in agricoltura. Le infrastrutture sociali attive, non offrendo un adeguato supporto in termini di servizi di conciliazione vita-lavoro, contribuiscono ad esporre le donne lavoratrici al rischio di povertà .
Come riportato dalla Flai-CGIL, ” è bene ricordare come nell’area metropolitana di Bari sia presente un flusso di manodopera in ingresso proveniente principalmente dal Brindisino e dal Tarantino, per la maggior parte composto da manodopera femminile italiana, condotta sul luogo di lavoro anche dai caporali ” . Sono le lavoratrici raccontate nelle inchieste giornalistiche che negli scorsi anni hanno attraversato la Puglia: dai granturismo ai piccoli bus che raccolgono le donne alle 4 del mattino per condurle ai vigneti. Sono donne che spesso non hanno alternativa al lavoro agricolo, per grado di scolarizzazione o perché devono far fronte a sopraggiunta necessità , come nel caso di chi è passata attraverso un divorzio e ha – se va bene – un assegno di mantenimento che però non basta a pagare le tasse universitarie dei figli.
Il racconto mainstream ricostruisce i contorni di un’attività lavorativa che da decenni impiega migliaia di lavoratrici che annualmente popolano gli elenchi anagrafici dell’INPS, e che secondo i dati INEA, in Puglia nel 2013 erano 62.550. I bisogni di queste donne, come rilevato anche nell’AgriLab, vengono espressi al di fuori di una rappresentanza collettiva, in una specie di pellegrinaggio solitario verso i Servizi sociali dei singoli Comuni, con istanze ” a domanda individuale ” che – come nel caso degli asili nido – comportano costi troppo alti da sostenere. L’assenza di servizi adeguati viene compensata da reti informali di baby sitter notturne, che ricevono una media di 10€ a fronte di 4 ore di accudimento.
I dati sulle condizioni di vita delle braccianti sono parte del vissuto delle comunità locali di cui fanno parte, che stiamo supportando – come nel caso di Adelfia – affinché si rendano parte della risposta e costruiscano un sistema di comunità coese. Un primo passo per chiedere che anche le politiche rurali e le politiche sociali della Regione Puglia prima, e dei Comuni dopo, siano in grado di strutturare una risposta ai bisogni di welfare che le braccianti esprimono. Come si legge nel rapporto ” Donne, madri, braccianti ” , ” la nuova Programmazione di Sviluppo Rurale 2014-2020 della Regione Puglia mantiene interventi di sostegno allo sviluppo locale (Misura 19), inquadrati dalla Priorità 6 ” Inclusione sociale e sviluppo locale nelle zone rurali ” . Relativamente all’approccio Leader, gli esiti della consultazione pubblica[3] condotta dal Gruppo di Azione Locale Seb restituiscono la scelta strategica di due temi su cui costruire la strategia di sviluppo locale 2014-2020: innovazione delle filiere e turismo sostenibile[4]. Qualora la proposta tematica dovesse essere confermata dal Piano di Azione Locale approvato, rimarrebbe da capire come essa contribuirà in concreto al miglioramento delle condizioni delle fasce più deboli della popolazione che abitano le aree rurali. A fronte di un bisogno molto ampio in termini di popolazione da coprire e privazione materiale e sociale, è importante che le iniziative da attuare vadano nella direzione di un’inclusione sociale che risponda alle fasce più marginalizzate della popolazione ” . I servizi sociali di supporto al lavoro di cura, le opportunità di inserimento o ricollocamento lavorativo nei mesi invernali, l’assistenza medica preventiva per le tecnopatie, sono argomenti a risposta ancora aperta.
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