Nuovi orizzonti tra sussidiarietà, audience engagement e cooperative di comunità

Desidero presentare questo progetto di ricerca sulla gestione partecipata dei musei con una premessa. Quando ho cominciato a scrivere questo lavoro nel 2015, la convinzione di fondo era che i musei dovessero percepirsi come risorsa comunitaria e territoriale oltre che come contenitori culturali. Più in generale immaginavo che i musei dovessero intendersi come componenti essenziali della società, i quali operano nel territorio e con il territorio al fine di contribuire alla costruzione di una società più inclusiva e consapevole. Questo punto di vista, apparentemente forzato, trova riscontro nelle teorie di personalità particolarmente illuminate della cultura come Carlo Argan e Huges De Varine.

Partire dalla fiducia nelle persone

Nell’ultimo decennio, le teorie di questi intellettuali hanno preso forma attraverso progetti museali sperimentali di coinvolgimento del pubblico in tutta Italia, tra cui si ricorda fra i molti Mare Memoria Viva di Palermo.  Osservando da vicino questi progetti è evidente il tentativo di fornire ai propri utenti strumenti di lettura della complessità sociale contemporanea che esulino da ragionamenti di tipo esclusivamente numerico e/o economico. La relazione con e tra le persone può essere posta a fondamento di un nuovo modo di intendere il museo. Questo mutamento di prospettiva, nel concepire contenuti e (inter)azioni che il museo genera, necessita di strumenti gestionali nuovi anch’essi basati su elementi economici di tipo sussidiario e orientati alla reciprocità.

Quali musei?

Tralasciando volontariamente gli istituti museali statali, soggetti alla riforma Franceschini del 2014, vengono presi in considerazione i musei di proprietà degli enti pubblici locali, nello specifico i medi e piccoli musei. Secondo i dati Istat del 2015 in Italia ci sono 4.158 tra musei, gallerie o collezioni; di questi circa 1.788 appartengono ai comuni. Il 75,8% dei musei è a gestione diretta e in questa percentuale i casi in cui il comune ha la gestione diretta sono otto su dieci, la restante parte è affidata a organizzazioni del terzo settore. Nel report si asserisce che “l’offerta museale italiana è costituita da un consistente numero di strutture di dimensioni piccole e piccolissime”.  È possibile identificare alcune caratteristiche del museo italiano quali capillarità, dimensionalità e territorialità. Capillarità intesa come distribuzione geografica del numero degli istituti museali: un comune su tre ospita almeno un museo. Il 40% dei musei risulta localizzato nelle aree interne, costituite da comuni intermedi, periferici e ultra-periferici.  Dimensionalità intesa come volume del pubblico che attraggono e quantità di beni culturali contenuti; in questo caso, i musei con meno di diecimila ingressi l’anno sono tre su quattro. Infine la territorialità: la maggior parte dei musei presenti sul territorio è di tipo etnografico e antropologico, dove la collezione esposta è legata alla storia del proprio territorio. Una struttura con questo tipo di caratteristiche necessita di archetipi gestionali declinabili in relazione ai contesti sociali, culturali e territoriali di riferimento. Un’impresa titanica ma possibile.

Cercare modelli o processi?

Nel tentativo di formulare un modello generico, la ricerca ha riscontrato delle possibilità di incontro tra le teorie di De Varine, che mettono al centro le comunità che interagiscono con il proprio patrimonio culturale, e le teorie di gestione dei beni comuni postulate da Elinor Ostrom, nobel per l’economia. La questione posta al centro della tesi di ricerca è stata proprio quella di individuare un filo logico tra la tesi di De Varine e quella della Ostrom. Se il primo parla di comunità che partecipano alla costruzione del proprio patrimonio culturale e la seconda definisce le caratteristiche dei beni comuni e di potenziali processi di gestione di questi da parte delle comunità, può il museo essere gestito dalla collettività? Nel tentativo di formulare una risposta a tale domanda, sono venuti in soccorso della tesi esposta, i modelli di partecipazione dei pubblici nei musei di Nina Simon e le sperimentazioni delle cooperative di comunità, le cui potenzialità sono ancora poco esplorate nell’ambito culturale. Proseguendo la ricerca in questa direzione è però emerso anzitutto che la gestione partecipata di un museo è un processo basato su una transizione. La costruzione di un modello gestionale partecipativo parte innanzitutto dal suo formularsi come processo, è quindi un passaggio dal modello gestionale standard, il così detto top down, a un modello innovativo dal basso, detto bottom up. Per effettuare questa transizione occorrono comunità consapevoli del proprio patrimonio culturale, dei propri musei.

Processi di partecipazione

Accade così che per parlare di cooperative di comunità responsabili del proprio patrimonio culturale sia necessario parlare di audience engagement, ovvero di coinvolgimento attivo dei fruitori e dei potenziali pubblici dei musei. Come detto poc’anzi, si tratta di un’impresa titanica ma non impossibile. Studiando casi come il Teatro Valle, breve parentesi di questo genere che ha dato il via ad un pensiero oggi più maturo, o intervistando gli ideatori e i fautori di progetti quali Farmidable e SwapMuseum e, ancora, affrontando la personale esperienza di community manager per l’associazione Casarmonica, ho rilevato una serie di momenti che potrebbero costituire un primo layout sul quale avviare un processo gestionale partecipativo. In primo luogo, emerge l’importanza dell’“incontro” (meeting), che consente la mappatura di stakeholder e comunità e, quindi, la raccolta delle istanze e dei bisogni. In secondo luogo, si verifica la “costruzione” (building), un momento costituito dall’analisi delle risorse e delle competenze presenti sul territorio e la creazione di un piano di sviluppo. Poi si apre la fase del “fare” (making), costituita dalla programmazione e realizzazione delle attività e dalla creazione degli indicatori. Infine il “ripensare” (re-thinking), momento basato sulla stesura del bilancio socio-culturale che apre al confronto e alla messa in discussione del processo e alla sua riformulazione.

Musei e persone

Alla luce delle esperienze fatte, sarebbe opportuno aggiungere alle fasi cui sopra si è accennato un elemento di non poco conto, quale è il “senso di appartenenza”, costituente la componente principale di tutto il processo. Se le persone percepiscono il museo come luogo della cultura e della memoria di se stessi e delle proprie comunità, è più probabile che se ne prendano cura, così come insegna la teoria della finestra di Zimbardo. Non si tratta semplicemente di operazioni di marketing: se il museo parla linguaggi comprensibili a tutti e si apre alle persone che lo attraversano, lo vivono e lo fanno vivere, troverà in questa filosofia il presupposto più concreto della sua durata nel tempo.
È chiaro che questo è solo un piccolo contributo, con i suoi limiti e le sue criticità, ma intende offrire un momento di riflessione ed alcuni spunti di approfondimento sul tema della partecipazione attiva dei cittadini nella cultura. Non si può poi disconoscere la componente fortemente ottimistica che ha sorretto e guidato la stesura di questo lavoro, che lo caratterizza e ne fa uno studio impegnato con uno sguardo rivolto alla realtà, nella convinzione che per ripartire sia indispensabile credere negli altri e ristabilire la fiducia tra le persone.