Dal voto del 26 maggio alcune considerazioni a caldo

Sui risultati delle elezioni europee già molto si è detto e letto nelle ore che sono seguite alla notte del 26 maggio. E molto ancora si dirà. Ogni nuovo commento sembra quindi superato dall’incalzare delle dichiarazioni, e dagli eventi stessi. A caldo, però, si possono fare alcune brevi considerazioni guidate dal profilo che ci riguarda e da ciò che abbiamo scritto alla vigilia del voto. Riflessioni che – necessariamente – devono tenere ai margini le ricadute tutte italiane di questo voto, che, oltre ad essere di difficile gestione immediata, non rendono giustizia all’istituzione per la quale sono stati chiamati al voto circa 400 milioni di cittadini e cittadine, in una straordinaria prova di democrazia pluralista.
La prima considerazione, un po’ amara, è che la partecipazione al voto è cresciuta mediamente in tutta Europa (50,5, il dato più alto degli ultimi 20 anni), anche e soprattutto nei paesi considerati a prevalenza di euroscettici, ma non in Italia (dal 58,7 al 56,1). Perché, da cofondatori entusiasti stiamo diventando sempre più indifferenti, se non addirittura ostili, all’Europa? Perché, quello che Gregorio Arena ha giustamente definito Bene Comune è da molti considerato invece un ostacolo, un limite alla propria libertà (vedi conflitto sui conti dello Stato) e un insieme di burocrati e di norme astruse o dannose? Se è così – ma nulla in politica, ricordiamolo, è irreversibile – è un guaio. Perché la globalizzazione, quella che vede almeno tre giganti protagonisti nel mondo e sempre più influenti direttamente nelle nostre vite in molti settori, si affronta efficacemente con organismi strutturati e forti che i nostri piccoli Paesi del vecchio continente non possono reggere. Allora oggi conviene capire – con quel sano egoismo di chi sa prendersi cura di un bene (anche immateriale, ma vitale) che è l’alleanza di interessi e di valori fatta di Paesi e popoli storicamente in guerra tra loro, ma che adesso, da soli, sono più limitati e deboli che mai – quanto sia importante che si costruisca insieme un sistema di informazione, formazione, alleanze, impegni e progetti della cosiddetta società civile e di piccole cellule diffuse sul territorio che riparlino, riconsiderino, riabilitino e rilancino l’idea di un’Europa unita e collaborativa. Nel tempo e con costanza, al di là delle singole specifiche rappresentanze elettorali.

L’Unione Europea, possiamo dirlo con coraggio, forse deve ancora pienamente nascere

Seconda considerazione, suscitata proprio dalla precedente: in realtà le forze sovraniste (ma bisognerebbe chiamarle antieuropeiste, nonostante apparenti e furbeschi distinguo) non hanno sfondato, rimangono minoranza. Sostanziosa e forte, ma pur sempre minoranza. Le possibili maggioranze a Strasburgo, quella vasta con Popolari, Socialisti e Liberali; o quella più risicata (e improbabile) senza i popolari ma con i verdi e quel che resta della sinistra, si baserebbero – appunto – sulla ferma convinzione che la costruzione dell’Europa debba andare avanti. Si vedrà. La partita è aperta e mette in gioco anche le leadership della futura Commissione.
Ma si è capito che per non fare passi indietro ci si deve mettere “qualcosa in più”, si deve dare un’anima a questo disegno, le classi dirigenti non devono essere impaurite dall’ondata xenofoba, securitaria e iperidentitaria che attraversa quasi tutti i 28 popoli aderenti, e adagiarsi sulle politiche che a quest’onda più si piegano. Né la logica dei conti in ordine e del mero rispetto delle regole può essere l’unica a governare i passi e le relazioni tra i singoli stati e Bruxelles. “Gettare il cuore oltre l’ostacolo” è una metafora che non può funzionare solo nelle competizioni sportive… Linguaggi, comportamenti, scelte e conseguenti provvedimenti dovranno cambiare registro se non si vuole che il disegno originario di Spinelli e compagnia venga definitivamente spazzato dal vento nazionalista.

Senza pregiudizi e senza semplificazioni

Ancora una volta, però, il voto ha segnalato che in molte città, soprattutto i grandi centri, luoghi e sedi dove il confronto sociale, politico, culturale e perfino religioso può avvenire de visu (e non solo in digitale…), fianco a fianco, guardandosi negli occhi e operando (anche spesso con fatica) nella concretezza della vita quotidiana, ecco, in questi ambienti vitali, nonostante le tensioni e a volte gli scontri, si cresce, si matura si evita di ragionare con il solo schema noi/loro, amici/nemici, dentro/fuori, onesti/criminali, e così via. Volenti o nolenti la complessità la si affronta senza pregiudizi e senza semplificazioni, che spesso generano solo risultati mediocri e controproducenti.
Andiamo oltre il voto, già da oggi. Ci sono stati, ad esempio, alcuni appelli preelettorali che non bisogna trascurare per lo sviluppo dell’Europa che verrà, non facendosi attanagliare dall’idea che lo “spirito del tempo” sia irrimediabilmente segnato dall’odio e dal conflitto egoistico. Due appelli che vengono dall’Europa sociale e dal volontariato, che possono costruire nel tempo il necessario capitale sociale e civile europeo delle popolazioni che l’abitano. E che le forze più illuminate – un altro dato emerso dalla partecipazione europea del 26 maggio – devono tenere in maggior considerazione visto che il voto giovanile, che pone grande attenzione a questi temi, ha premiato un disegno aperto e inclusivo dell’Europa che vogliono.

L’economia sociale e solidale non è un’utopia

Il primo appello nasce da un gruppo di reti e coordinamenti europei dell’economia sociale e solidale e di autorità locali comunali che chiede alle istituzioni europee “un maggior impegno per mettere in campo politiche in questo settore”.
L’economia sociale e solidale non è un’utopia, affermano: è già una realtà economica che in Europa riguarda un’impresa su 10, dà lavoro a 13,6 milioni di dipendenti, ha 5,5 milioni di volontari e genera l’8% del PIL europeo. Per questo chiedono che i “leader politici europei, e in particolare il futuro Presidente della Commissione, si impegnino per garantire la visibilità e sviluppare una politica europea di economia sociale, allo stesso livello delle principali politiche commerciali, agricole, monetarie, monetarie o regionali europee”. Si potrebbe anche creare – scrivono ancora – una sorta di Erasmus dell’economia sociale che, “con una dotazione di bilancio di 3 miliardi di euro, avrebbe un triplice obiettivo: promuovere la formazione all’imprenditoria sociale, sviluppare un partenariato transeuropeo tra imprenditori, rappresentanti di ecosistemi o organizzazioni dell’economia sociale e promuovere partenariati tra autorità pubbliche nazionali e regionali per lo scambio di buone pratiche”.
Il secondo richiamo è stato lanciato da un’altra rete fatta di associazioni europee che con una campagna mirata a dare “valore reale” al volontariato (attraverso studi e ricerche ufficiali a livello europeo) chiede di coordinare entro “un unico quadro normativo le politiche di volontariato delle diverse istituzioni europee, di riconoscere le competenze acquisite tramite il volontariato e di includerlo come priorità nella programmazione europea 2021-2027”.
Utopia? Illusione? Prematuro parlarne ora? No, non ci sembra. Si riparta dai progetti, per rilanciare un’idea alta dell’Europa unita. E’ stata proprio la logica che mette al primo posto i giochi di potere e poi – in subordine – i fatti, le idee, i programmi, la vita dei cittadini, che ha screditato la politica e le istituzioni, e non solo quelle europee in questi anni.

Foto di copertina: Picos de Europa, PlanetSport su Pixabay