Appunti di viaggio dentro Lacittàintorno

Nella primavera del 2018, dopo l’esperienza del progetto biennale Costruire comunità, liberare energie in Lombardia, Fondazione Cariplo propone a Labsus una nuova sfida: contribuire allo sviluppo del programma di rigenerazione urbana Lacittàintorno, promuovendo l’amministrazione condivisa dei beni comuni in alcuni contesti perifericidi Milano – quartiere Adriano, Via Padova, quartiere Corvetto e borgo di Chiaravalle – in collaborazione con gli agronomi del Centro di Forestazione Urbana di Italia Nostra.
L’azione di Lacittàintorno attraverso Luoghicomuni, come è stata intitolata l’area del programma dedicata, è duplice: da un lato, è tesa a valorizzare nell’interesse generale le risorse e le progettualità presenti nei quartieri attraverso i patti di collaborazione, per intercettare con più facilità e rapidità le proposte degli abitanti; dall’altro, è volta a creare le condizioni grazie alle quali, facendo perno sulle attività di cura, gestione e rigenerazione condivisa di spazi aperti collettivi, potranno nascere e svilupparsi alleanze inedite tra soggetti diversi, con in comune il desiderio di vivere in un luogo più bello, più verde e più inclusivo.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che in un anno potessero “accadere tante cose”: solo nella fase di reporting ci siamo accorti che era opportuno fermarsi a riflettere, ripercorrere scelte e fasi progettuali, fissando qualche primo apprendimento. Qui proviamo a raccoglierne alcuni che v’invitiamo, se volete, a commentare, con l’auspicio di costruire una seconda fase ancora più intensa, coraggiosa, generativa.

Progettare conoscendo

Sono 36 in totale gli eventi pubblici e i laboratori aperti organizzati ad oggi nei diversi quartieri, cui aggiungere gli incontri dedicati alla costruzione dei singoli patti (ad oggi 3 sono attivi, 4 in via di firma, 18 in costruzione), le partecipazioni ad altri eventi o a incontri di rete e le oltre 60 riunioni, organizzative o formative, con il Comune di Milano nelle sue diverse articolazioni. Sono solo numeri, che trasmettono però l’intensità e il ritmo degli eventi che si sono susseguiti, nella maggior parte dei casi difficili da pianificare esattamente in fase progettuale, in quanto parte dell’operare conoscendo che ha caratterizzato questo primo anno di attività. Sin dall’inizio, la strategia di progetto nelle varie aree d’intervento si configura in maniera differente, in ragione delle diverse vocazioni e dinamiche socio-culturali, ma anche delle caratteristiche degli spazi aperti presenti: un approccio che prova ad essere il più possibile site specific, agevolato dal lavoro di analisi e ricerca territoriale condotto dal Dastu – Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e che sta già trovando riscontro nelle differenze tra i primi patti di collaborazione firmati.

I “quartieri intorno”

Ad Adriano, un territorio frammentato, vissuto da molti come un quartiere dormitorio, in cui il verde urbano non manca affatto ma è scarsamente vissuto, la costruzione di patti diventa soprattutto occasione per incontrarsi, conoscersi, per fare comunità: per colmare l’assenza (di alcuni servizi pubblici o di luoghi di aggregazione) con la prossimità. Sin dal primo laboratorio viene così evidenziata la necessità di lavorare sugli spazi incolti adiacenti a strutture comunitarie, come gli spogliatoi dell’associazione sportiva dilettantistica del Real Crescenzago: il primo patto di Adriano, quartiere dagli ampi spazi “vuoti”, nasce emblematicamente su una piccola area privata abbandonata, che si trasforma con l’azione collettiva in un rigoglioso e vivace bene comune.
A differenza di Adriano, Corvetto è una periferia “vicina”, trovandosi in prossimità di grandi infrastrutture di connessione. È uno dei quartieri di Milano con la più alta percentuale di popolazione straniera, dove, nonostante le tante progettualità sociali e culturali presenti, restano ampie sacche di fragilità. È inoltre un tessuto denso, tipico dei grandi interventi unitari di edilizia residenziale pubblica. Il primo patto ha riguardato non a caso la via su cui affaccia il Laboratorio di Quartiere Mazzini, con il protagonismo di diversi abitanti dei caseggiati ERP e la collaborazione di alcune realtà appartenenti alla “Rete Corvetto” – un esempio virtuoso di cooperazione “informale” e coordinamento tra le tante organizzazioni e singoli cittadini attivi in quartiere. Il secondo patto, “Azzaip! Questa non è una piazza”, è ormai diventato un caso scuola di micro-rigenerazione urbana dal basso, che mette al centro interculturalità, promozione artistica e culturale, attenzione all’ambiente e aggregazione sociale.
Continuando verso sud il Corvetto termina quasi bruscamente nell’aperta campagna, e in meno di mezzora a piedi si raggiungono l’Abbazia e il borgo di Chiaravalle, sulle sponde della roggia Vettabbia. I primi incontri con gli attori locali fanno emergere le specificità paesaggistiche e ambientali complessive di Chiaravalle, ma anche la difficoltà delle realtà del territorio a lavorare insieme: un’azione singola e circoscritta avrebbe rischiato in questo caso di sminuire il senso della nostra proposta. È iniziato così un percorso che ha portato all’elaborazione e scrittura collettiva di un Patto Cornice che considera l’intero borgo come un bene comune, affiancato da un percorso artistico incentrato sulle parole e il linguaggio condiviso. Apparentemente astratto, in realtà il patto cornice prevede già diversi micro-patti specifici, per migliorare sia il borgo sia la qualità delle relazioni tra i suoi abitanti.

“Io collaboro con diverse associazioni ma sono qui da abitante, da cittadina”

E’ capitato diverse volte di ascoltare queste parole durante uno dei nostri workshop, a Chiaravalle come in quartiere Adriano, nonostante le sensibili differenze che, come abbiamo visto, caratterizzano i territori di riferimento. C’è infatti un elemento ricorrente: le persone coinvolte nelle coprogettazioni intorno ad uno o più beni comuni dimostrano come i patti di collaborazione siano uno strumento capace di aprire percorsi trasformativi inediti che le organizzazioni “tradizionali” spesso faticano a intravedere. Non solo: il processo di costruzione di un patto favorisce un modo di progettare estremamente inclusivo. Inclusione che costituisce un tassello importante di empowerment, se nel processo di dialogo si generano apprendimento reciproco, fiducia nell’altro, senso di appartenenza, nuove relazioni. Non sappiamo ancora misurare esattamente tutto questo con opportuni indicatori. Eppure vedere Sumaya, Amir e altri bambini della Scuola primaria Filzi di Corvetto (quella dove “i genitori italiani si rifiutano di iscrivere i loro figli”) progettare azioni per migliorare il parchetto pubblico malandato davanti alla scuola, seguendo i loro bisogni e i loro desideri, con un tecnico del municipio che li ascolta e prende appunti, ci indica sicuramente una strada.
Allo stesso modo, ascoltare Giulio il fruttivendolo, Simone il macellaio e gli altri commercianti del mercato comunale coperto di Piazzale Ferrara (nota ai più per essere “controllata” dal giro di spacciatori del quartiere) ragionare per ore su come tenere insieme interesse generale e vocazione commerciale dell’area, suggerisce che siamo di fronte a una rara opportunità: consentire agli abitanti di svolgere un’azione politica profonda capace di incidere sul destino delle periferie, attraverso un’assunzione diretta di responsabilità. Responsabilità che si sposa con la possibilità, inedita, di cogestire parti di città, con logiche alternative a quelle speculative (legali e non…).
Per cogliere questa opportunità credo siano necessari una riflessione e un investimento in termini di energie, competenze e strategie su alcune macro-questioni da parte di tutti gli attori coinvolti, a ogni livello, che provo a sintetizzare nei successivi paragrafi.

Nodi di reti (di relazioni)

I community manager – intesi non solo come facilitatori di quartiere, ma come quei soggetti che agiscono “fra il dentro e il fuori l’organizzazione per promuovere forme collaborative di innovazione e di ingaggio con le comunità (al plurale)” – hanno un ruolo assolutamente cruciale, sul quale non solo le amministrazioni pubbliche dovrebbero e potrebbero investire. Se ne parla da anni, in tutte le salse e in ogni contesto, eppure sono ancora poche le esperienze virtuose e realmente consapevoli che valorizzano, non solo a parole, la centralità di queste figure nei processi di rigenerazione urbana.
Come sappiamo, sono competenze trasversali solo parzialmente codificate e forse per questo non ancora, realmente, “riconosciute”. I community manager di Luoghicomuni (non solo le figure “esplicite” che fanno parte dello staff di progetto) apprendono in corso d’opera come motivare, comunicare e attivare, a seconda del contesto e dell’interlocutore: ascoltano attivamente bisogni, paure e desideri, scovano risorse latenti e competenze inespresse, intercettano e decifrano interessi; utilizzano registri e format differenti a seconda del dove e con chi, anche nell’ambito di uno stesso quartiere, organizzando tutti gli elementi in gioco per raggiungere un obiettivo comune, nell’interesse generale; si destreggiano tra numerosi e intrecciati livelli politici, amministrativi, organizzativi e progettuali, molto spesso senza avere una procedura ben definita da seguire.
Se la direzione dell’amministrazione condivisa è quella di agire come una piattaforma peer-to-peer che abilita processi diffusi di cura e rigenerazione dei beni comuni, i community manager non possono che essere i nodi di rete del sistema: come tali vanno riconosciuti e valorizzati, non solo in termini di risorse dedicate, ma anche e soprattutto di meccanismi di voice effettivi, nei diversi contesti e livelli organizzativi sollecitati dalla loro azione.

La dimensione spazio-temporale del commoning

A proposito di voice: affinché le aspirazioni degli abitanti, in particolare in contesti marginali, prendano forma e siano rappresentate sulla scena pubblica, occorre che ci sia una capacità di vocesuggeriva Appadurai. Se esiste un fattore chiave per la sostenibilità dei processi oltre il termine del programma, sta sicuramente nella capacità narrativa, argomentativa e progettuale delle comunità: una capacità che solo con la pratica del confronto costruttivo, aperto e non occasionale può tradursi in una capacità diffusa, per dirla con Ezio Manzini.
Incontrarsi per progettare insieme la rigenerazione di uno o più beni comuni, come ben descritto da Rossana Caselli, genera un clima diverso rispetto alle tradizionali sedi di confronto: mettere intorno ad uno stesso tavolo attori eterogenei (cittadini, associazioni, cooperative sociali, piccoli commercianti, dipendenti pubblici, scuole, genitori…), in un ambiente non istituzionale, rende evidente per tutti la dimensione “corale” della cura dei beni comuni. Una dimensione che nella sua coralità riesce a fare tesoro delle differenze, alimentando contemporaneamente l’identità collettiva delle persone, delle organizzazioni, dei luoghi.
Il “dilemma” organizzativo, tutt’altro che banale, sperimentato in questo caso è dato dalla grande difficoltà di conciliare tempi di lavoro e di vita delle persone: tempi e ritmi scanditi da un modo di produzione e consumo che non contempla affatto la dimensione comune (e che anzi, spesso, non contempla neanche quella privata). Se le sedi del commoning vogliono essere davvero aperte e inclusive, non possono non interrogarsi su questa contraddizione storica del sistema socio-economico in cui viviamo.
Da questo punto di vista, Luoghicomuni offre ai cittadini la possibilità di immaginare e realizzare concretamente, attraverso uno strumento aperto e flessibile come il patto di collaborazione, ulteriori luoghi dove incontrarsi e rallentare, per dare spazio (anche fisico) alle relazioni: il “Real Giardino” ad Adriano e “Azzaip” a Corvetto rappresentano esattamente questo.
Rimane tuttavia la necessità di una sede stabile per il confronto e l’apprendimento reciproco tra tutti gli attori, pubblici e privati, interessati alla cura dei beni comuni: un luogo che sappia modellarsi in maniera sartoriale e mai definitiva sui bisogni mutevoli delle comunità, trovando risposte creative ed efficaci alla frammentarietà sociale, con un particolare riguardo alle differenti forme di fragilità del contemporaneo.

Per una Politica della condivisione

La crisi profonda della democrazia che stiamo vivendo non ha risparmiato quella “partecipativa”, come ha recentemente argomentato anche Daniela Ciaffi. Nei patti di collaborazione la fase decisionale, necessariamente condivisa tra pubblico e privato, è direttamente connessa con la fase attuativa, anch’essa condivisa. Un errore che i nostri rappresentanti politici, dirigenti e funzionari comunali non devono commettere è allora quello di considerare l’amministrazione condivisa come un semplice derivato delle tradizionali politiche partecipative. La portata innovativa del Regolamento e l’evoluzione recente dei patti sono state, d’altra parte, già ampiamente descritte e dibattute. Quali sono le prospettive di maggiore interesse che stiamo osservando a Milano?

La grande partita dell’Edilizia Residenziale Pubblica

ALER Milano è l’azienda per la casa più grande d’Italia e fra le maggiori in Europa. Labsus ha avviato un’interlocuzione a partire dalla presenza ambivalente (come criticità/opportunità) di spazi di competenza ALER, in particolare al Corvetto. Tra questi spazi troviamo aree verdi interstiziali utilizzate come discariche, ex portinerie in disuso, cortili interni fatiscenti: beni che non potranno mai diventare “comuni” se continuano ad essere percepiti soltanto come fonti di degrado. Spazi fisici e simbolici che per essere “valorizzati” hanno innanzitutto bisogno che sia “valorizzato” chi in quegli spazi ci vive tutti i giorni.
ALER si è dimostrata interessata allo strumento dei patti, al punto da impegnarsi nell’elaborazione di un proprio regolamento per la cura, la gestione e la rigenerazione condivisa di beni di sua competenza, mutuandolo da quello comunale. Oltre a rappresentare un’interessante innovazione amministrativa, l’introduzione di un dispositivo collaborativo aperto e flessibile come il patto potrebbe essere, finalmente, la chiave di volta per quella “manutenzione incredibile” di cui scriveva Alessia Macchi e che, a Milano come in altre città del mondo, è sempre più urgente trasformare in realtà: la Politica, con la P maiuscola, se vuole davvero produrre un cambiamento significativo in termini di qualità di vita nelle periferie, non può sottrarsi a questa sfida. Che è senz’altro complessa e sistemica, come complesse e sistemiche devono essere le strategie di risposta. Ovvero coraggiose e radicali.

Che ruolo giocano i privati?

Il numero di imprese profit coinvolte nei patti di collaborazione è ancora relativamente basso (nel 2017 rappresentavano il 9% dei soggetti a livello nazionale). In attesa di dati aggiornati che saranno diffusi nel gennaio 2020 con il nuovo Rapporto Labsus, Milano sembra distinguersi anche su questo fronte almeno per due tendenze: da un lato c’è il protagonismo dei piccoli commercianti, che attraverso un patto contribuiscono al miglioramento dello spazio pubblico urbano mettendosi in rete con altre realtà, generando un valore sociale che va ben al di là del mero decoro; dall’altro si profila la possibilità, molto più concreta che altrove, di vedere tra le fila dei “pattisti” anche gruppi imprenditoriali interessati ad essere parte di azioni d’interesse generale. Il compito di quella Politica sarà in questo caso di garantire in maniera ancora più stringente e prioritaria che l’interesse generale sia sempre salvaguardato, difeso, tutelato. Agli addetti ai lavori quello di valutare se e come questo ruolo nuovo delle imprese profit si distingua, e in che modo, da quello ricoperto nelle “vecchie” policy della Responsabilità Sociale d’Impresa.
Un discorso a parte merita il patrimonio privato abbandonato o in disuso: non parliamo solo di immobili, ma anche di terreni in attesa (come i tanti in bella mostra al quartiere Adriano), sui quali poter costruire processi generativi di riuso creativo, percorsi di educazione ambientale, e così via. La Politica deve essere in grado di abilitare il dialogo tra i grandi rentier che detengono larga parte di questo patrimonio e le comunità che esprimono il desiderio di attivarsi nella cura dei beni comuni, in nome di quella funzione sociale della proprietà privata che la nostra Costituzione prevede espressamente all’art. 42.

Economie sociali di rete 

Milano è la capitale degli eventi di tendenza e delle week, ma anche del diffuso e radicato attivismo civico e sociale. Perché allora alcuni problemi, in un quartiere come Corvetto quasi “saturo” di progettualità diverse e che insistono su differenti scale, sembrano non trovare mai una soluzione? Una risposta la offre Don Andrea, eroe del quotidiano del Corvetto, durante un walkshop di narrazione territoriale del Dastu: “In un anno non si cambia nulla”. Il respiro corto non fa andare lontano, lo sa bene chi gareggia nel non profit all’italiana. Se all’entropia di iniziative sfiatate si affianca l’entropia generale del sistema in cui viviamo, ecco che emerge con ancora più urgenza la necessità di una politica coraggiosa, che sappia scommettere su alleanze inedite, eterogenee e autenticamente sussidiarie, per trovare insieme risposte nuove alla complessità urbana. La strada, affatto lineare, che stiamo provando a percorrere è quella di costruire, di patto in patto, reti di relazioni collaborative che dimostrino che un altro modo di essere nel sistema è possibile, anche in periferia.
La sperimentazione di un patto che unisca diversi territori, scuole, progettualità sociali e ambientali, pratiche formali e informali, soggetti ed enti che operano su differenti livelli – quale è il patto finalizzato alla co-creazione di un corridoio ecologico e culturale attraverso Vaiano Valle e il Parco della Vettabbia – ambisce esattamente a questo: generare esternalità di rete attivando e valorizzando tutte le sinergie possibili, anche quelle a cui non avremmo mai pensato. Perché la cura dei beni comuni conviene a tutti, anche a chi si ostina irresponsabilmente a negarne l’importanza. Per le nostre vite e per quelle che verranno dopo di noi.

Foto di copertina di Marianna Frangipane, percorso Verba vs Xeniteia per Chiaravalle Bene Comune