Con la nuova programmazione europea le pratiche di gestione collaborativa e cura condivisa dei beni comuni potrebbero vivere un periodo di grande fermento. Ma attenzione ai cortocircuiti

Mentre la pandemia ha generato alte aspettative sulla disponibilità di fondi europei straordinari per la risposta alle problematiche generate dal Covid-19, sino all’annuncio del Recovery Fund, in Italia la programmazione delle risorse europee “ordinarie” per il prossimo settennio 2021-2027 è in corso d’opera da circa un anno e la prospettiva della “gestione collaborativa dei beni comuni” (amministrazione condivisa nella terminologia di questa rivista) si sta facendo strada nell’agenda politica. Mettere a fuoco i chiari e gli scuri di questo importante riconoscimento può essere utile per prendere voce e indirizzare la destinazione di eventuali risorse, anche in seguito all’impatto che la pandemia ha avuto sui processi di cittadinanza attiva e di gestione collaborativa dei beni comuni.

La programmazione delle risorse europee in Italia

La programmazione delle Politiche di Sviluppo e Coesione per il periodo 2021-2027 è entrata nel vivo nel maggio 2019, quando il Dipartimento per le Politiche di Coesione della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dato il via a cinque Tavoli Tematici, un tavolo per ciascuno dei 5 Obiettivi di Policy proposti dal Regolamento del Parlamento e del Consiglio Europeo per il prossimo periodo di programmazione (OP1. Europa più intelligente, OP2. Europa più verde, OP3. Europa più connessa, OP4. Europa più sociale, OP5. Europa più vicina ai cittadini).
I Tavoli Tematici prevedono un confronto tra pubbliche amministrazioni e il “partenariato economico e sociale” per declinare gli Obiettivi di Policy nel contesto italiano e indirizzare la scrittura dell’Accordo di Partenariato, sulla base del quale verranno poi redatti i Programmi Operativi Nazionali (PON) e i Programmi Operativi Regionali (POR).
Da maggio a ottobre 2019 si sono svolte 5 riunioni per ognuno dei Tavoli Tematici, a gennaio 2020 il Dipartimento per le Politiche di Coesione ha pubblicato un documento di sintesi per ogni Tavolo Tematico, anticipando così i contenuti che confluiranno nelle prime bozze dell’Accordo di Partenariato da discutere con la Commissione Europea.

Una fotografia socio-economica del Paese

La programmazione del periodo 2021-2017 è particolarmente importante per l’Italia perché, già prima della pandemia, la crisi economica e le disuguaglianze crescenti nel nostro Paese, rispetto al periodo 2014-2020, hanno fatto indietreggiare Sardegna e Molise tra le regioni meno sviluppate (con Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia), mentre l’Umbria è passata dalle regioni più sviluppate a quelle in transizione (con Abruzzo e Marche). Insomma le condizioni socio-economiche del nostro Paese sono peggiorate, solo metà delle regioni italiane presenta un livello di sviluppo accettabile (ma con divari territoriali interni alle stesse regioni) e le Politiche di Sviluppo e Coesione devono affrontare urgenze e complessità che non si possono più ignorare e semplificare.
Ed è in questo contesto di tensione crescente tra gli obiettivi di sviluppo e coesione da una parte e l’aumento delle disuguaglianze dall’altra, che nei documenti citati della nuova programmazione in progress fa capolino il tema della gestione collaborativa dei beni comuni.

L’importanza riconosciuta alle forme di partecipazione attiva

Nel Documento preparatorio per il confronto partenariale si legge infatti che le politiche di sviluppo e coesione possono contribuire a “sperimentare forme partecipative e partenariali nel riuso e gestione dei beni del patrimonio culturale, e più in generale dei beni pubblici altrimenti abbandonati e non utilizzati (non pochi nel Paese), capaci di creare nuovi valori per le comunità locali, non limitabili a quelli meramente finanziari e di favorire l’insediamento di nuove economie”.
Tra i contributi al Tavolo Tematico 5, dedicato all’Obiettivo di Policy “Un’Europa più vicina ai cittadini”, troviamo quello dell’Agenzia per la Coesione Territoriale dove si legge che per “rafforzare l’intero sistema urbano” si potrebbe promuovere “il recupero in chiave socio-culturale di spazi ed edifici dismessi o sottoutilizzati (pubblici e/o privati) riconosciuti come beni comuni e luoghi identitari, anche attraverso il sostegno ed il riconoscimento dei percorsi di partecipazione della cittadinanza attiva. Oltre a sostenere le singole pratiche (già in atto in alcune città), si tratterebbe di favorire anche la costruzione di una rete nazionale ed europea per facilitare le pratiche con un approccio condiviso verso questo tema”.
Nel documento di sintesi degli esiti del Tavolo Tematico 5 si dà grande enfasi allo sviluppo territoriale integrato e al ruolo della cittadinanza attiva, ma “le pratiche partenariali locali dovrebbero evolvere verso maggiori ambizioni anche in considerazione delle soddisfacenti esperienze di co-design e gestione collaborativa dei beni comuni realizzate in alcune città italiane ed europee”.

Nuovi attori, vecchi paradigmi?

La gestione collaborativa dei beni comuni viene dunque riconosciuta e fa dei passi avanti nell’agenda politica della programmazione europea del prossimo settennio, portando con sé la necessità della sperimentazione di forme di amministrazione condivisa e di nuove forme partecipative e partenariali nel riuso e nella gestione dei beni comuni.
Non sappiamo ancora come si tradurrà questo riconoscimento nell’Accordo di Partenariato e nei diversi Programmi Operativi, ma di certo si apre uno spazio di opportunità e interlocuzione che allarga le prospettive, pur celando delle insidie.
Le innovazioni nella programmazione infatti si sono spesso concentrate sul disegno di nuove politiche, nuove negli obiettivi, nei metodi e nei contenuti, tralasciando però una revisione e un adattamento degli strumenti di attuazione. Il rischio di un cortocircuito tra innovazioni di contenuto, di metodo e vecchi strumenti di attuazione diventa così elevatissimo. Pensiamo per esempio ad alcuni processi partecipativi per la progettazione di strategie di sviluppo: la progettazione partecipata, aperta e inclusiva, ha aperto le porte e ha legittimato soggetti nuovi portatori di idee ed energie importanti, ma vecchi strumenti di attuazione, come bandi con criteri di accessibilità che privilegiano anni di attività ed esercizi di bilancio, hanno costruito dei muri invalicabili proprio per i nuovi soggetti.
I cortocircuiti del passato dovrebbero insegnare la necessità di contestuali innovazioni di contenuto, di metodo e di strumenti di attuazione delle politiche. E questo risulta particolarmente importante nel caso della gestione collaborativa dei beni comuni dove obiettivi e funzioni di cittadini attivi, organizzazioni e pubblica amministrazione si combinano in modo del tutto inedito.

Più luci che ombre

Di certo però l’ingresso nell’agenda politica della nuova programmazione determina più opportunità che insidie, sia per chi è impegnato nella cura condivisa dei beni comuni sia per i policy maker.
Le pratiche di cura condivisa dei beni comuni già in corso possono infatti fare emergere una rappresentazione dei territori che è utile a ridefinire e mettere a fuoco con precisione i divari sociali, economici e territoriali. Questi spazi e queste pratiche, diventando infatti dei microscopi delle realtà in cui operano grazie alla relazione con le comunità locali, producono una tipologia di conoscenza indispensabile ai policy maker, ma difficile da apprendere se non si hanno contatti con le “realtà microscopio”.
D’altra parte, entrare nella programmazione dei fondi comunitari vuol dire avere la possibilità di accesso a risorse economiche per chi sperimenta o vuole sperimentare la cura condivisa dei beni comuni. E probabilmente sarà proprio nelle modalità di erogazione e nelle possibilità di utilizzo delle risorse che si deciderà la potenziale innovatività della partita.
Potrebbero funzionare bandi che finanziano progetti specifici o bandi che supportano il processo di relazione tra il bene e la comunità nella sua imprevedibilità? Potrebbero bastare le classiche categorie di spese ammissibili o potrebbe essere il caso di inventarne di nuove, a partire dalle esperienze di gestione collaborativa dei beni comuni già in corso?

Memorandum per un prossimo futuro

Insomma con la nuova programmazione europea le pratiche di gestione collaborativa dei beni comuni potrebbero vivere un periodo di grande fermento che richiede attenzione alle insidie possibili, ma soprattutto capacità di (auto)rappresentazione, di proposta e conoscenza degli iter della programmazione, senza pensare che siano troppi complessi e che siano prerogativa solo di tecnocrati e progettisti.
Le risorse europee sono risorse di tutti noi ed è tempo di allargare la conoscenza e l’attivazione di pensiero e di dibattito su risorse che possono davvero, per quantità e per obiettivi che si pongono, migliorare la vita dei luoghi e delle comunità in cui viviamo.

Foto di copertina: Markus Spiske su Unsplash