Il Ministero del Lavoro ha pubblicato, dopo l’adozione da parte della Corte dei Conti del decreto interministeriale 2 aprile 2025, il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali per il triennio 2024-2026, che definisce i livelli essenziali delle prestazioni sociali su tutto il territorio nazionale. Per la prima volta si parla anche di Patti di collaborazione e Patti educativi di comunità, strumenti collaborativi per eccellenza aperti alla partecipazione e collaborazione di cittadini singoli e associati, in forme strutturate o in gruppi informali.
Non sembra casuale il richiamo ai Patti di collaborazione nella sezione iniziale riservata ai principi ispiratori del piano, nella parte dedicata alle responsabilità condivise. In particolare, viene indicato come il principio di sussidiarietà orizzontale “determina un diverso equilibrio tra intervento statale e intervento privato e un cambiamento dello status degli attori e delle loro relazioni. In questo quadro, i cittadini e le loro organizzazioni, nonché gli Enti del Terzo settore, sono soggetti attivi, portatori di risorse che contribuiscono, insieme agli Attori pubblici, a perseguire scopi istituzionali e collettivi”. In tale contesto, i Patti di collaborazione vengono definiti come strumenti “deputati al perseguimento dell’interesse generale attraverso la collaborazione fra cittadini, singoli e associati, e amministrazione, in virtù del principio di sussidiarietà”.
Le origini dell’Amministrazione condivisa
La collocazione dei Patti di collaborazione nella sezione dei principi ispiratori, oltre che sottolineare il naturale legame con il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, implicitamente li indica come prima forma di attuazione dello stesso.
Se oggi abbiamo una pluralità di strumenti collaborativi diversi tra loro per caratteristiche e tipo di utilizzo lo dobbiamo a quei cittadini, amministratori, associazioni, organizzazioni, a quelle comunità di pratica che ne hanno favorito la diffusione, hanno sperimentato ambiti di applicazione e possibilità, superato criticità e legittimato lo strumento attraverso il quotidiano lavoro. Senza il Regolamento e i Patti di collaborazione, senza le diverse esperienze di cura dei beni comuni, non ci sarebbe stato tutto il resto. Attraverso l’impegno e la fatica di tanti precursori è partito un movimento spontaneo che, dal basso, ha cambiato le regole e favorito l’adozione di principi e strumenti che dal livello comunale si sono allargati a unioni di comuni, ambiti territoriali, città metropolitane. Ci sono state, quindi, le prime leggi regionali e il codice del Terzo settore per giungere alla Sentenza della Corte costituzionale 131 del 26 giugno 2020 che legittima l’Amministrazione condivisa come attività “ordinaria” della pubblica amministrazione, non legata all’eccezionalità degli interventi ma al reciproco riconoscimento fra istituzioni e Terzo settore per il perseguimento di attività di interesse generale.
L’evoluzione dei Patti
Nel Piano sociale si legge ancora che “i Patti possono essere usati per la cura dei beni comuni e tutte le volte che sia necessario condividere risorse e responsabilità per perseguire l’interesse generale”. Se appare scontata la finalità legata alla cura dei beni comuni, molto meno lo è quel tutte le volte che sia necessario. L’evoluzione dei Patti di collaborazione è emblematica in questo senso: da essere considerato strumento per piccoli gruppi di cittadini attivi per la cura ordinaria di spazi pubblici, in particolare le aree verdi urbane, si è passati al contrasto del caporalato, all’educazione, alla cura e fruizione dei beni culturali, al recupero e riutilizzo dei beni confiscati, ai piani di protezione civile. Finalmente possiamo lasciarci alle spalle l’idea del Patto di collaborazione come azione meritoria di uno sparuto e volenteroso gruppo di cittadini attivi e considerare l’azione di cura un pezzo rilevante per la definizione delle politiche pubbliche e strumento di costruzione di Stato sociale dal basso.
Orientare le politiche pubbliche
Sulla base di queste premesse gli effetti che il Piano riconduce ai Patti di collaborazione sono quelli di una comunità in cui “crescono il capitale sociale, il senso civico, l’integrazione e la fiducia reciproca fra i cittadini e verso le istituzioni, promuovendo in chiave contemporanea il concetto di cittadinanza”. Praticare l’Amministrazione condivisa significa, quindi, cercare sentieri e percorsi nuovi per recuperare spazi di democrazia e sostenere quello che di nuovo sta nascendo, in forme diverse dal passato, ma con la capacità di definire identità nuove, mobilitare energie per la tutela di interessi generali, riconoscersi in principi e valori condivisi.
L’altra faccia della medaglia del modello economico capitalista che esalta l’individualismo è la solitudine delle persone che si scoprono, nella stragrande maggioranza, più fragili e più povere ogni giorno di più. Il cuore dell’Amministrazione condivisa sta nella condivisione di risorse e responsabilità fra cittadini e pubblica amministrazione e quindi, ben oltre il loro carattere neutro di strumenti amministrativi, finiscono per orientare e condizionare le scelte in quanto inducono sia i cittadini che le istituzioni ad uscire dal proprio guscio per aprirsi alla collaborazione. Per questo, bene fa il piano a definire il Patto di collaborazione un processo, proprio per la sua natura intimamente relazionale capace di cambiare la realtà attraverso le connessioni inedite che crea e alimenta.
I Patti educativi tra le azioni strategiche
Nel secondo capitolo del Piano, dove vengono delineate le azioni strategiche e operative delle politiche sociali per il prossimo triennio, vengono indicati i Patti educativi di comunità come “cornice complessiva entro la quale inserire tutto il lavoro del Servizio multifunzionale per preadolescenti e adolescenti”. Anche in questo caso il superamento di una visione limitata verso una prospettiva “la cui finalità principale è la creazione di una rete collaborativa per contrastare la povertà educativa e promuovere il benessere e lo sviluppo integrale dei ragazzi e dei giovani, mirando a costruire un ambiente educativo di comunità in un percorso condiviso di crescita culturale, sociale ed educativa”.
Attraverso i Patti educativi di comunità, quindi, costruire reti, relazioni e comunità accoglienti e solidali attraverso un’alleanza tra Scuola, Ambiti territoriali sociali, Comuni, Enti di Terzo settore, associazionismo e reti familiari che co-progettano il Patto educativo di comunità.
Modello generale
Il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2024-2026 può rappresentare un passaggio importante per il definitivo superamento di quell’impostazione che cerca di restringere il campo d’azione dell’Amministrazione condivisa agli istituti e ai soggetti previsti dal codice del Terzo settore. La struttura del Piano, invece, sembra valorizzare un’interpretazione più ampia di quei riferimenti normativi che, nel codice dei contratti pubblici, escludono dal campo di applicazione, prima ancora che gli istituti di co-programmazione, co-progettazione e convenzioni, anche quelli che definisce genericamente modelli di amministrazione condivisa e, nell’articolo 1 del codice del Terzo settore, indica quale finalità quella di sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini, anche in forma associata.
L’Amministrazione condivisa, dunque, come modello generale capace di valorizzare alleanze tra soggetti diversi tra loro costruendo rapporti giuridici innovativi certamente tra pubblica amministrazione e Terzo settore, ma non solo. Dal Piano Nazionale Sociale la sfida per costruire politiche sociali capaci di moltiplicare le alleanze attraverso i Patti di collaborazione e i Patti educativi di comunità.
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Immagine di copertina: Daniel Funes Fuentes su Unsplash