Il progetto “Vaghe Stelle” da anni cerca di ricostruire una incerta costellazione di piccole realtà – abitative, economiche, culturali e sociali – che vanno nella direzione della cura condivisa del territorio veneto

Prendi un gruppo di venticinque persone, prevalentemente di estrazione urbana, eterogenee per età, professione, sensibilità e competenze e mettile in cammino per più giorni alla scoperta di territori spesso vicini e quotidiani ma, fino a quel momento – e paradossalmente – quasi sconosciuti. Da questa semplice ricetta nasce Vaghe Stelle, il progetto di esplorazione e ricerca territoriale promosso dall’associazione EQuiStiamo di Vicenza. Il gruppo, con la compagnia di timide ma caparbie asinelle capaci di dare un ritmo lento e una visione empatica con la Terra, in dieci anni ha percorso oltre un centinaio di chilometri da Ovest verso Est attraversando oltre cinquanta Comuni.

Traguardare le terre venete di mezzo

Sono, questi, territori di frangia tra Prealpi Venete e pianura: terre di mezzo dove si avvertono tensioni e, talvolta, divari fortemente contrastanti. Da una parte la megalopoli padana di Eugenio Turri, fittamente popolata e diffusamente edificata, sede dei centri di produzione e di scambio, privilegiata in termini di attenzione politica; dall’altra la collina e la media montagna che hanno patito lo spopolamento, il declino dell’attività agraria, l’avanzata incontrollabile del bosco e l’alterazione degli originari paesaggi umani. Questo ha portato ad incrociare e “traguardare” diversi strati storico-identitari (i relitti industriali del primo ‘900, la civiltà rurale, le vicende del boom economico e del conseguente abbandono delle terre), conviventi a breve distanza con l’ipersviluppo della pianura, rivedendoli in relazione all’attuale crisi economica, ecologica e climatica.

Alla ricerca lenta di costellazioni di cura del territorio

Nasce così una modalità di ricerca non convenzionale e non strettamente accademica, che piace definire “fatta con i piedi”. Una pratica di cammino comune, collegiale e conviviale, maturata passo dopo passo, che si addentra con sentimenti elementari ma con attenzione e rispetto nella complessità paesaggistica e ambientale, nella dimensione storica e politica di territori che vengono spesso frequentati in modo frettoloso o superficiale. Si cerca di ricostruire quell’incerta (e spesso, appunto, vaga) costellazione formata da piccole realtà abitative, economiche, culturali e sociali che vanno nella direzione della responsabilità e della cura, immaginando nuove geografie del lavoro, dell’abitare e dell’arte di vivere. Lo spettro valoriale si fonda sulla ricerca di una sostenibilità economica-sociale delle attività umane e sul valore dei patrimoni ambientali e culturali; l’accezione di territorio come bene comune diventa pertanto lo ‘sbocco naturale’ di questo progressivo processo esperienziale.

Il Massiccio del Grappa tra abbandoni e ritorni

Nel 2022 si è concluso un quadriennio dedicato al Massiccio del Grappa, una delle realtà montane più vaste e sfaccettate del Veneto, percorrendone il settore orientale, forse il più ‘selvaggio’ e meno noto. Dalla sua estremità, bagnata dal “Piave Nazionale” – così lo chiama il geografo Francesco Vallerani nel suo Acque a NordEst – il cammino è giunto nella città di Feltre (Belluno) che, con il suo nucleo storico attraversato dalla Via Claudia Augusta, è cerniera tra il mondo della pianura e quello alpino orientale, e porta del Primiero e del Trentino, verso il mondo retico. Monte Grappa come confine, dunque, non lineare ma dotato di uno spessore tale – fisico e culturale, storico e geografico – da assumere i connotati di un limes alto e corrugato, sfondo ineludibile per chi alzi lo sguardo dalla pianura veneta o dalla conca feltrina, entità imponente e al tempo stesso articolata e varia. Riconosciuto da MAB Unesco come Patrimonio della Biosfera, diviso fra tre provincie e solcato da valli variamente orientate, è paradigma dell’abbandono delle “montagne di mezzo” ma anche laboratorio di nuove vivacità: tra abbandoni e ritorni, questa massiccia ruga confinaria interroga sul passato e sul futuro di aree sorprendentemente ricche, ma di una ricchezza controversa, che sembra non ‘pagare’ più gli sforzi della permanenza e della cura.

Lo spessore del confine. Monte Grappa tra abbandoni e ritorni – Cammino 2022 (2-5 giugno 2022)

Alleanze di acqua, di fiori e antichi castagni: da Pederobba a Feltre (2-5 giugno 2022)

Dopo un’ora passata in riva alla Piave, tra severe problematiche di tutela e profonde suggestioni geopoetiche, siamo già seduti in cerchio a discutere di Amministrazione condivisa con Daniela Ciaffi di Labsus. Un preambolo forte e necessario prima di tentare, scalzi e incerti, i guadi del Torrente Tegorzo e guadagnare la Valle di Schievenin, un universo di verde dai fianchi boscosi e scoscesi. Una giornata che si conclude in una sinfonia di suoni d’acqua, da Fenér ai mulini di Quero, fino all’incredibile oasi del Mulino Vallina, con Lucia esuberante interprete di una saggezza rurale che ci lascia sorpresi e ci rasserena come e forse più dell’ammaliante succo d’uva che beviamo sul prato. Verso Schievenin ci si insinua in valle e si indovinano nel folto vecchie case e alberi da frutto.  Qui si fa sentire l’orchestra dei decespugliatori e delle falciatrici, armi di una resistenza – ostinata e contraria – verso una vegetazione inestricabile e pervasiva, che si fa difendendo e riconquistando piccoli prati, orti conclusi, giardini pieni di fiori a punteggiare orgogliosamente di colore la dominanza esagerata di verde.  Che si fa coltivando, ricucendo faticosamente un ordinamento atavico fatto di muretti, recinti, piccoli vigneti sospesi. Lassù si incontrano antichi abitatori e nuovi cittadini della montagna: ognuno con storie, e presenze, e ruoli diversi, talvolta ritagliati con fatica nel forziere della memoria, o negli aneliti di un nuovo abitare giovane, che non si spiega facilmente.

Gesti poetici, gesti politici

Forse erano così i nuclei dei primi coltivatori del Neolitico nel folto della foresta primigenia: sparsi, minacciati, autarchici. Prodromi, allora, di future espansioni umane; tasselli incastonati, ora, di una permanenza ostinata o sognante, ancora indefinita, ma in armonia con i selvatici, con le mansuete bestie domestiche, con una natura che sta ritrovando essa stessa nuove forme fluide e disordinate.  E dalla quale si traggono ancora buoni frutti, come la stupenda castagna che ha segnato una civiltà. La chiesa, bianca e pulita, è assediata dal bosco e il piccolo museo locale quasi commuove, mostrandoci la diversità delle vite attraverso rocce, piante, insetti, uccelli e altri animali. Percorrendo saliscendi afosi di prati e vecchi colossali castagni, vediamo fiori alla finestra, in una casa in rovina di cui è rimasta solo una precaria parete: è un gesto poetico e politico o, forse, semplicemente, una sorta di resistenza. Istinti di bellezza e di cura che non vogliono arretrare. Fermandosi, sotto una leggera pioggia, nella frazione di Cilladon, poco più di una decina di abitanti permanenti, è bello togliersi il mantello, riparare in un’accogliente tettoia e parlare, chiedere, ascoltare; mangiare e bere – cantare – con questo strano popolo, carpirne i segreti. Viene naturale un sottile desiderio di condividerne le sorti. Non ci fermiamo: ancora più su, come in una lenta scalata, subito troviamo una stalla e un buffet rustico di formaggi buonissimi e vino fresco; e i problemi quotidiani di un’azienda sempre ‘in trincea’.

Come la cura può trasformarsi da fatto resistente individuale ad alleanza condivisa?

Si suggeriscono alleanze, empatie, o anche solo la comprensione verso chi lavora e rende produttivo un ambiente che altrimenti cederebbe anch’esso all’invasione dell’armata verde. Da ultimo la malga Pàoda, pulpito d’erba su una montagna da cui, dopo un crepuscolo piovoso e una notte in tenda, all’alba la vista spazierà sul mondo intero, dalle Dolomiti fino al mare. Scollinando poi il caposaldo del Monte Tomatico tra raggi di luce tra i faggi, altre malghe fiorite e attive che rincuorano, baite ristrutturate per intraprese agrituristiche giovani e motivate, calando sulle frazioni del Feltrino dove le comunità producono segni economici e sociali più tangibili, respiriamo positivo: ma pensiamo ancora a quel mondo frammentato e disperso nelle foreste. Cerchiamo, allora, di immaginare come la cura possa trasformarsi da fatto resistente individuale ad alleanza condivisa. Questo nostro camminare per capire ci conduce a pensare a possibili patti di custodia, aperti a tutti, senza distinzioni di radici e provenienza, che radunino insieme e facciano fluire le storie di tanti mondi.  Un’alleanza per una custodia che si evolva in una cura permanente, diffusa e coordinata, dove gli attori in gioco potremmo anche essere tutti noi, ognuno mettendoci del proprio. Cosa lascerà questo strano e giocoso gruppo di viandanti interroganti, con un’asinella di nome Gina che tutti vogliono accarezzare al passaggio? Che segno lascerà sui greti della Piave, sui mulini del Tegorzo, su Schievenin, Falladen, Val di Prada, Cilladon e Pàoda?  Sulla cima arguta del Tomàtico?  Che traccia sulle comunità di Porcén, Tomo, Feltre che lo scrittore Matteo Melchiorre ci ha raccontato tra evidenze storiche, campanilismi e vite romanzate di paese?

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Pierangelo Miola, da più di trent’anni impiegato nel settore forestale pubblico nell’Ente Regione Veneto, è l’ideatore del progetto “Vaghe Stelle”.

Foto di copertina: il gruppo di “viandanti interroganti” sul massiccio del Monte Grappa (2-5 giugno 2022) (credits:Daniela Ciaffi)