" Progetto Bollate " : un modello di cultura e amministrazione carceraria e un esempio di civiltà 

Il detenuto che, in vari modi, si prende cura dei beni comuni rappresenta probabilmente la sintesi pratica e teorica di un percorso di reinserimento ideale

Morire di carcere


Recentemente Labsus, affrontando il tema complesso dell’assistenza nelle carceri, ha segnalato il testo “Per non morire di carcere“, nel quale esperti, studiosi, rappresentanti istituzionali ed operatori carcerari hanno indagato sulla possibilità  di realizzare una pena detentiva che non generi malattia.

Il detenuto ha diritto a soffrire solo della perdita di libertà ? La risposta affermativa a questa domanda inevitabilmente non può trascurare gli effetti degenerativi della condanna. Queste sono ad esempio le condizioni documentate dai volontari di Antigone nella Casa circondariale di Poggioreale a Napoli. Capienza regolamentare: 1.347 detenuti. Presenti maggio 211: 2.626 detenuti. Condizioni detentive nelle celle: i reparti più sovraffollati sono il Padiglione Napoli (presenti 45 – capienza 24) e Padiglione Milano (presenti 379 – capienza 2). In una cella si arriva sino a 12 -14 detenuti, con i letti a castello impilati per tre e un solo bagno interno alla cella. Ad esclusione del Padiglione Firenze (presenti 354 detenuti) negli altri padiglioni le docce sono solo esterne. La luce entra nelle celle e d’estate il sole è cosìforte che i detenuti coprono le finestre utilizzando un asciugamano bagnato. Il blindato (la porta di ferro della cella) viene chiuso la notte e aperto alle 6. del mattino. Le docce esterne sono accessibili due volte a settimana. Causa motivi di sovraffollamento le ore d’aria sono solo due. D’estate non vi sono attività  formative e/o scolastiche.

Da marzo 21 a giugno 211 sono stati cinque i decessi noti, di cui due suicidi.

Quella di Napoli è una situazione comune a molti altri istituti e non è nemmeno la peggiore, il primato (al 2 marzo 211) va infatti a Busto Arsizio, in provincia di Varese, con circa 265 detenuti ogni 1 posti.

Questa la situazione in Puglia, questo invece lo scenario in Emilia – Romagna.

Approfondire i processi di degradazione derivanti dalla detenzione, e dalla qualità  della vita in carcere, richiederebbe l’intervento di esperti, ma il solo dato delle morti e dei suicidi nei penitenziari lascia intendere la portata del fallimento del sistema carcerario italiano.

Secondo il dossier “2 – 211 Morire di carcere” della rivista Ristretti Orizzonti, negli ultimi 12 anni sono morti 1.866 detenuti, (668 per suicidio), le vittime solo nel 211 sono 12, di cui 42 per suicidio (aggiornamento all’8 agosto 211).

“Progetto Bollate”

 

In un simile contesto esistono comunque delle eccezioni, come quella della Casa di reclusione di Bollate in provincia di Milano, inaugurata nel 2 e diretta da Lucia Castellano, alla quale il nuovo sindaco Giuliano Pisapia ha deciso di affidare l’assessorato alla Casa, demanio e lavori pubblici.

Il progetto sperimentale di custodia attenuata del carcere di Bollate può essere ritenuto un successo per la collettività  e non solo dell’amministrazione.

La pena viene interpretata infatti nell’ottica del servizio pubblico.

Per effettuare un’analisi corretta è necessario sottolineare la differenza tra Casa di reclusione, o Casa penale (Bollate ad esempio) e Casa circondariale (San Vittore ad esempio). Con la prima definizione si intendono gli istituti adibiti all’espiazione delle pene, con la seconda invece ci si riferisce a quegli istituti, presenti praticamente in ogni città  sede di tribunale, nei quali sono detenute le persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni).

Secondo Lucia Castellano, in un carcere come San Vittore, dove ogni giorno entrano 5 detenuti e ne escono 3, senza che sia possibile conoscerli, è difficile portare avanti con continuità  un progetto di sostegno al reinserimento già  durante la detenzione. “Ma c’è anche un altro aspetto. La cultura della pena è ancora legata all’esercizio di un potere assoluto, alla sopraffazione, all’annullamento della personalità  e della capacità  di autodeterminazione, non a un servizio pubblico. E’ una cultura che non considera le persone come esseri pensanti, né come risorse, e che però non ha impedito a Bollate di fare scuola, scuola di cultura penitenziaria”. Prosegue la direttrice: “Ci sono 1.1 persone a Bollate che girano per l’istituto, tra cui autori di reati sessuali che in genere sono ghettizzati e ci sono 56 donne. Il clima è tranquillo, le stanze di detenzione sono aperte e non succede nulla. E’ una comunità  sicuramente coatta, da cui non si può uscire, ma in cui è garantita tutta la libertà  possibile compatibile con il muro di cinta. Questo è il carcere secondo la Costituzione. E’ una questione culturale e strutturale. Laddove non è possibile attivare un progetto sperimentale come quello di Bollate si può comunque lavorare sulla dignità “.

La Costituzione prevede una pena rieducativa

L’articolo 27 della Costituzione recita: “La responsabilità  penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità  e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.

L’articolo 13 comma 4 invece stabilisce che ” E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà “.

La rieducazione dovrebbe essere un dovere nei confronti dell’autore del reato, che deve avere in ogni caso l’opportunità  di trasformare la pena in riscatto, un dovere costituzionale, etico ed anche, più banalmente, un’aspirazione dell’intera collettività  per evitare il rischio che il detenuto si trasformi in un soggetto ancora più pericoloso in quanto abbrutito da una condanna senza prospettive.

A Bollate (2) i reclusi possono godere di questa possibilità ; oltre all’organizzazione di attività  sportive, culturali e ricreative, come ad esempio la redazione del giornale interno “Carte bollate“, il progetto prevede un’ampia offerta istruttiva, formativa e lavorativa. I presupposti del “progetto Bollate” sono: il recupero dell’identità  del recluso, la condivisione dell’organizzazione, la decarcerizzazione.

L’offerta lavorativa è talmente sviluppata che non dobbiamo più limitarci ad immaginare detenuti che si occupano di beni comuni o impegnati in attività  di interesse generale, poiché alcuni di essi già  lavorano al canile municipale e per l’Amsa (Azienda milanese servizi ambientali) nei parchi e nei giardini della città , sempre con il controllo della polizia penitenziaria. La direttrice Castellano ricorda quando “un giorno in cui nevicava da matti, il provveditore mi chiese: ‘Mi fai uscire cinquanta detenuti per spalare la neve?’ e dopo poche ore c’erano cinquanta detenuti fuori che spalavano la neve”.

Dal 27 è stata attivata nella Casa di reclusione una cooperativa sociale, “Cascina Bollate“, con un vivaio interno, un giardino didattico aperto al pubblico e un orto biologico.

I detenuti lavorano alle dipendenze di aziende esterne (che possono godere delle agevolazioni previste dalla “Legge Smuraglia” – legge n. 193/2), nelle cooperative sociali miste detenuti/soggetti esterni, oppure all’esterno dell’istituto. Nel caso della Lombardia è necessario inoltre fare riferimento alla legge regionale n. 8/25 sul carcere, che ha permesso il finanziamento di una serie di azioni sperimentali di inclusione sociale (progetti di housing sociale ad esempio) e lo sviluppo di una rete del terzo settore integrata e qualificata sul territorio.

L’esperienza di Bollate rappresenta la prova che un modello diverso di cultura carceraria è realizzabile se le amministrazioni dimostrano una volontà  in tal senso, senza dimenticare i risultati in termini di sicurezza sociale. I vantaggi derivanti da un soggetto in espiazione di pena impiegato in un lavoro socialmente utile sono evidenti: la comunità  viene ripagata in parte del crimine commesso e il detenuto può acquisire un’esperienza lavorativa certamente utile una volta in libertà  e disporre delle risorse necessarie per pagarsi i costi della detenzione.

Nella prospettiva del principio di sussidiarietà  il detenuto che, in vari modi, si prende cura dei beni comuni rappresenta probabilmente la sintesi pratica e teorica di un percorso di reinserimento ideale.

Si realizza infatti uno scambio, una sinergia tra carcere e città , che potrebbe portare a considerare il carcere quasi come un quartiere della città  stessa e il recluso come un cittadino che si occupa del quartiere in cui vive con il sostegno doveroso della pubblica amministrazione.

Poiché riteniamo che “le persone siano portatrici non solo di bisogni ma anche di capacità  e che sia possibile che queste capacità  siano messe a disposizione della comunità “, questa certezza include evidentemente anche tutti coloro che sono considerati elementi problematici per la collettività .

Il detenuto impegnato in attività  sociali rafforza la nostra convinzione che anche partendo da una condizione di estremo disagio tutti possono esprimere le proprie capacità  e metterle a disposizione della comunità .

Crediamo quindi sia necessario superare il concetto tutto sommato paternalistico di “rieducazione” che, oltre a rimanere di fatto inattuato, spesso non fornisce prospettive concrete di sviluppo, proprio perché al condannato non viene permesso di porsi come soggetto attivo.

Voltaire l’aveva capito già  nel Settecento

 

L’estensione dell’area della punibilità  e il ridimensionamento delle pene alternative ha portato il nostro paese ad avere una percentuale di detenuti in custodia cautelare sul totale dei reclusi di 42,2% (la media europea è 24,8%) e, ad esempio, una percentuale di detenuti per violazione della legge sulle droghe di 36,9%, mentre la media europea è del 15,4% (per un approfondimento sul tema v. il “Secondo libro bianco sulla legge Fini – Giovanardi“). Inoltre va considerata anche la media degli stranieri sul totale della popolazione carceraria che è del 37% rispetto all’ 11,5% della media europea.

Il piano carceri approvato nel 21 non può affrontare le criticità  del sistema a causa della mancanza di fondi e di personale per gestire le nuove strutture.

D’altro canto la soluzione amnistia invocata dai Radicali, da sempre in prima linea per la difesa dei diritti dei detenuti, appare come un rimedio solo momentaneo, tant’è che l’indulto del 26 non ha impedito che a distanza di cinque anni si tornasse ad una situazione insostenibile.

In attesa di finanziamenti adeguati, le sole strade percorribili per risolvere i problemi di fondo e riportare la condanna all’interno dei binari costituzionali consistono nel riconsiderare il ruolo del carcere e le condotte che costituiscono fattispecie di reato, depenalizzando tutta una serie di condotte (legge Fini – Giovanardi e legge Bossi – Fini) e derubricando le contravvenzioni penali a violazioni amministrative.

Infine è indispensabile utilizzare diversamente la carcerazione preventiva (al riguardo la bozza della riforma “Pisapia” sulla parte generale del Codice penale).

Si potrebbero ipotizzare infatti interventi come ridurre l’applicazione della custodia cautelare in favore di una maggiore e più rapida applicazione delle misure alternative al carcere e far scontare agli stranieri la pena in patria quando è possibile, vicino ai familiari, con effetti positivi sul sovraffollamento.

L’articolo 15 della legge Bossi – Fini consente di condonare al detenuto extracomunitario gli ultimi due anni di pena sostituendoli con l’espulsione.

Immaginando un parallelo tra gli articoli costituzionali 118 e 27, le istituzioni in ambito penale non hanno solo il dovere di “favorire”, ma l’obbligo di realizzare la riabilitazione del condannato.

Quella dei beni comuni e del lavoro di carattere sociale appare una cura efficace, poiché il detenuto può sentirsi parte attiva ed integrante della società  anche durante l’espiazione della pena, permettendo una reale possibilità  di reinserimento sociale.

“Se vuoi conoscere il grado di civiltà  di un Paese visitane le prigioni” affermava Voltaire circa tre secoli fa.

In periodi storici socialmente ed economicamente “difficili” come quello attuale appare superfluo e faticoso dedicare attenzione alle condizioni dei carcerati, soprattutto dopo anni di politiche all’insegna della sicurezza sociale che hanno considerato il carcere come prima ed unica risposta alle paure, spesso fomentate ad arte, dell’opinione pubblica.

A quella parte di società  civile che tenta di “restare umana”(3), che non vuole “perdere la tenerezza”, che comprende l’importanza sociale del tema, che ritiene la detenzione l’ultima e la più estrema delle scelte possibili, abbiamo voluto segnalare l’esempio positivo di Bollate da cui ripartire.

(1) Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Direzione generale per il bilancio e la contabilità  – Ufficio formazione e gestione del bilancio.

(2) Visita virtuale al carcere di Bollate.

(3) Vittorio Arrigoni.