Dal Pil al Bil (Benessere interno lordo)

Il Pil misura tutto " eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta"

Parlare di benessere, qualità della vita, felicità in tempi di crisi potrebbe sembrare fuori luogo se non addirittura oltraggioso nei confronti di chi della crisi paga le conseguenze più dure in termini di perdita del posto di lavoro e di insicurezza personale e sociale. Al tempo stesso, è proprio quando un sistema mostra le sue contraddizioni che è possibile denunciarne i limiti e individuare modelli alternativi.

Nelle società industriali avanzate l’economia ha rappresentato qualcosa di più di uno strumento di gestione delle risorse disponibili; essa è diventata un modello culturale orientato alla riduzione quantitativa di ogni fenomeno umano e sociale. Espressione estrema del processo di razionalizzazione che ha investito l’Occidente moderno, l’economia, nel momento in cui riduce la qualità a quantità, esclude più di quanto include della realtà; lascia fuori dalle sue analisi e rilevazioni il senso delle cose, il benessere individuale e collettivo, in pratica la felicità.

Il rapporto della Commissione Sarkozy

Nelle ultime settimane la pubblicazione del rapporto della commissione Stiglizt, Sen, Fitoussi, istituita dal presidente francese Sarkozy a febbraio del 28, ha dato vita ad un dibattito che ha travalicato le stesse intenzioni degli estensori del rapporto, avviando una riflessione sulla qualità della vita all’interno delle società industriali avanzate.

La finalità del rapporto era principalmente quella di individuare nuovi strumenti statistici per la rilevazione del benessere, capaci di sostituire o integrare quello strumento fondamentale di misurazione economica che è il Pil. È evidente che in tempi di crisi è fin troppo facile rivedere i paradigmi conoscitivi elaborati dall’economia; da questo punto di vista, il contributo critico del rapporto non costituirebbe di per sé una novità.

Ciò che è realmente innovativo è che all’interno di un documento di natura specialistica, si traggano conseguenze di più ampia portata sociale. In uno dei passaggi chiave del rapporto si sostiene che “i tempi sono maturi affinché i sistemi di misurazione passino dalla rilevazione della produzione a quella del benessere”, in un contesto di sviluppo sostenibile che guardi alla possibilità di tramandare tali livelli di benessere alle generazioni future. In questa prospettiva il reddito e i consumi divengono più importanti dell’analisi della produzione e lo sviluppo sostenibile il principio ispiratore dell’agire economico. Il Pil non tiene conto infatti dei costi sostenuti dalle generazioni future per il mantenimento nel presente di standards elevati di produzione; non misura ciò che si distrugge, ma solo ciò che si produce, introducendo una cultura della deresponsabilizzazione che comporta delle conseguenze che vanno molto al di là del campo economico. Sostenibilità e responsabilità non sono concetti che appartengono solo all’economia, ma hanno anche un elevata valenza politica e sociale.

Il benessere e la qualità della vita

In realtà i limiti del Pil sono ben noti ad economisti e uomini politici, già da diversi decenni. Nel 1968 Robert Kennedy concludeva un discorso all’Università del Kansas affermando che il Pil misura tutto “eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta". Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”. Nel 1972 il re del Bhutan, il piccolo stato ai piedi dell’Himalaya, decise che il Pil non era sufficiente a rilevare il livello di felicità dei suoi sudditi e “inventò” il Gnh (Gross national happiness), rilevabile attraverso un questionario, che sul momento destò ilarità presso gli economisti.

Le critiche all’economia muovono da diversi fronti e a riprova della loro fondatezza, vale la pena ricordare che sono valse ad alcuni degli estensori del rapporto il premio Nobel in questa disciplina (Sen 1998, Stiglitz 21). Pur nella diversità delle prospettive, tali critiche sembrano convergere nel riconoscimento del fatto che l’agire economico, come già aveva evidenziato Polanyi, è indissolubilmente legato alle dinamiche sociali, siano esse di natura etica, politica, giuridica o semplicemente psicologica, e che scinderlo da queste significa fare dell’economia un’astrazione.

Si è aperta così la strada all’affermazione delle nozioni di benessere e di qualità della vita, concetti per definizione complessi e capaci di combinare al loro interno aspetti oggettivi e soggettivi. Se sul piano soggettivo la percezione del benessere è alquanto difficile da misurare, sembra invece che possano essere individuati alcuni parametri che concorrono in maniera oggettiva alla sua determinazione. Il rapporto individua nella salute, l’educazione, lo svolgimento di attività personali, la possibilità di far sentire la propria voce come cittadini, l’inserimento nelle reti sociali, le condizioni ambientali e la sicurezza personale, i parametri oggettivi di misurazione del benessere, suscettibili di assumere connotazioni diverse a seconda del contesto culturale e della percezione individuale.

Tempo, qualità della vita e tutela dei beni comuni

La nozione di qualità della vita chiama in causa l’impiego del tempo e la natura delle attività svolte. Espressioni diffuse nel linguaggio comune quali “chi me lo fa fare” o “è tempo sprecato” restituiscono il senso di una visione utilitaristica della vita, che estende il campo di applicazione del calcolo costi/benefici al di là dell’ambito economico. In una prospettiva economicistica, ci sono azioni che sono prive di senso per il solo fatto che non possono essere tradotte in termini quantitativi.
In realtà, come evidenziato dagli indicatori per la rilevazione del benessere individuale, sembra proprio che a fare la differenza siano le attività nelle quali gli individui sono quotidianamente impegnati: la capacità di mantenere un controllo su di esse e la possibilità di verificarne i risultati divengono due parametri fondamentali nella definizione della qualità della vita. Si tratta di una dinamica che inverte il rapporto tra tempi sociali e tempi individuali all’interno delle società industriali avanzate, ridimensionando i primi a vantaggio dei secondi.

Che valore attribuire al tempo dedicato alla raccolta differenziata, alla ricerca del benessere della propria collettività, alla difesa dei beni comuni, all’impegno richiesto per essere cittadini attivi, all’attenzione dedicata alle cose e alle persone, all’amicizia? In base al Pil, nessuno, mentre è molto elevato il loro contributo alla definizione del benessere individuale e collettivo. Lo svolgimento di tali attività implica infatti la creazione di dinamiche relazionali e di reti sociali, altro parametro ritenuto fondamentale nella misurazione della qualità della vita, che attribuiscono all’agire un significato in sé, indipendentemente dai risultati.

Tali tipologie di attività richiedono a chi le compie di sostenere un costo in termini di tempo e di risorse che avrebbero potuto essere destinati al soddisfacimento di un interesse individuale e che invece sono messi a disposizione della collettività, nel riconoscimento del fatto che è proprio a questo livello che il bisogno di senso che anima l’agire umano trova le sue risposte più complete. Tali azioni comportano l’accumulazione di un capitale sociale condiviso, fatto di esperienze, relazioni, pratiche quotidiane che da solo determina la “ricchezza” di una nazione.