Il paradigma del paziente applicato alla protezione civile

La protezione civile non riconosce i cittadini che assiste come potenziali cittadini attivi

Le vicende che in questi giorni coinvolgono la protezione civile dimostrano non tanto e non solo la verità dell’assioma secondo il quale "il potere corrompe, ed il potere assoluto corrompe assolutamente", quanto la fragilità di un modello organizzativo.
Da questo punto di vista è un bene che sia scoppiato lo scandalo riguardante le attività della protezione civile, perché ci costringe ad interrogarci sul modo con cui negli ultimi anni è stato interpretato il concetto stesso di "protezione civile".
Forse non è un caso che Bertolaso sia un medico. Perché il suo modo di intendere il rapporto della protezione civile con il Paese ricorda molto il modo con cui certi medici interpretano il proprio rapporto con i pazienti.
Il paziente ideale, secondo questo genere di medici, è quello che si abbandona totalmente nelle mani di chi lo cura, un soggetto passivo e paziente, appunto, che non fa domande e accetta qualunque decisione del medico. Forse inconsciamente, Bertolaso riproduce questo schema quando descrive il ruolo della protezione civile nel curare le ferite della collettività in occasione di emergenze.

La logica del pronto soccorso

E’ la logica del pronto soccorso, in cui giocano un ruolo cruciale fattori come l’efficienza dei mezzi, la rapidità di intervento, l’attribuzione ad uno solo di poteri assoluti di scelta su chi, come e con quali modalità intervenire. E infatti la normativa del 1992 che disciplina la protezione civile prevede che essa possa agire "in deroga ad ogni disposizione vigente" per affrontare le emergenze.
Ma se la logica del "pronto soccorso" viene estesa all’organizzazione dei Mondiali di nuoto, dei Giochi del Mediterraneo, all’esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Copertino, alla designazione dei garanti delle celebrazioni per l’Unità d’Italia, agli appalti per le carceri, all’Esposizione di Milano ed a molte altre situazioni simili a queste che non sono affatto di emergenza, ecco che emergono i limiti del modello organizzativo che fa perno sulla figura del commissario straordinario, uno strumento speciale usato per risolvere problemi normali.

La "prevaricazione"

Questi limiti però non sono soltanto quelli che sono stati messi in evidenza da chi giustamente critica l’impropria estensione degli interventi del commissario straordinario a settori in cui dovrebbe agire l’amministrazione ordinaria, con gli strumenti normali di ogni pubblica amministrazione.
Costoro infatti confrontano due modi di intendere l’amministrazione, entrambi però fondati sul medesimo paradigma, quello bipolare tradizionale che attribuisce sempre e comunque all’amministrazione la tutela dell’interesse generale. E la critica che si è appuntata sulla figura del commissario straordinario ha riguardato quella che potremmo definire la sua "prevaricazione" rispetto al modello ordinario di amministrazione.

Due modelli antitetici

Proviamo invece ad uscire dallo schema bipolare usando come riferimento il principio di sussidiarietà ed il nuovo modello di amministrazione condivisa che esso legittima, fondato sulla presenza diffusa di cittadini attivi, responsabili e solidali. Il confronto in questo caso non è più soltanto fra due modelli di amministrazione all’interno del medesimo schema teorico ma fra due modelli di organizzazione sociale fondati su paradigmi antitetici, da un lato quello bipolare, dall’altro quello sussidiario.
Da una parte il commissario straordinario, dall’altra una pluralità di soggetti, i cittadini attivi.
Da una parte poteri "straordinari", extra-ordinem, letteralmente fuori dall’ordine, quindi dalla normalità. Dall’altra tanti individui assolutamente normali, senza potere, perché essere cittadini attivi non comporta l’esercizio di alcun potere.
Da una parte la semplificazione insita nel comando, nella decisione assunta e imposta ad altri, dall’altra la complessità del confronto, delle decisioni discusse e poi attuate insieme. Da una parte la concentrazione del potere, dall’altra la diffusione delle attività di cura dei beni comuni.
Da una parte la ricchezza delle risorse pubbliche, dall’altra la modestia delle risorse personali. Da una parte la notorietà, dall’altra l’anonimato. Da una parte la temporaneità dell’incarico, dall’altra la permanenza dello status di cittadino.
Sembra quasi un susseguirsi di quelle che Norberto Bobbio definiva "grandi dicotomie". Non è un caso, perché lo schema teorico su cui si fonda la figura del commissario straordinario è identico a quello su cui si fonda il modello tradizionale di amministrazione, portato però alle sue estreme conseguenze quanto a concentrazione del potere e riduzione dei cittadini a meri assistiti.

Assistiti, mai alleati

Il modello organizzativo fondato sul commissario straordinario è insomma agli antipodi rispetto all’idea di cittadinanza attiva, responsabile, solidale che il principio di sussidiarietà legittima e promuove.
Per questo se si utilizza il principio di sussidiarietà come chiave di interpretazione della figura del commissario straordinario si vede che i suoi limiti principali non riguardano tanto il rapporto con gli istituti dell’amministrazione ordinaria, su cui il commissario prevaricherebbe, bensì quello con i cittadini. Questi ultimi, ancor più di quanto accada normalmente da parte degli apparati pubblici, vengono dal commissario straordinario considerati come meri destinatari dei propri interventi, non certo come potenziali alleati o come protagonisti dell’intervento.
Lo schema definito sopra del "pronto soccorso", applicato alle emergenze di cui si occupa la protezione civile, presuppone infatti che i cittadini si rimettano totalmente nelle mani dei soccorritori, allo stesso modo in cui la vittima di un incidente si affida al medico che la cura.

Un anno fa dicevamo…

In sostanza, per quanto riguarda il rapporto del commissario straordinario con i cittadini i suoi limiti sono gli stessi, ma accentuati, del modello tradizionale di amministrazione, quello che, in parte per sottovalutazione delle capacità di cui sono portatori i cittadini, in parte perché questo modello garantisce a politici e funzionari un ruolo preminente, preferisce non coinvolgere i cittadini nella soluzione dei problemi che li riguardano.
Lo notavamo già nell’aprile dello scorso anno, in un editoriale intitolato "Contro il terremoto la sussidiarietà funziona meglio del potere" di cui riproduciamo la parte finale, purtroppo ancora attuale.
"Per settimane, stando alle cronache, si sono succedute in Abruzzo le scosse sismiche. Di fronte alle richieste di informazioni e di aiuto da parte dei cittadini le istituzioni si sono limitate a fornire generiche rassicurazioni, poi come s’è visto rivelatesi purtroppo del tutto inattendibili. Ma a quanto pare nessuno, fra coloro che avevano responsabilità istituzionali ai vari livelli, ha pensato invece di coinvolgere i cittadini nella prevenzione, favorendo quelle che la Costituzione chiama le ‘autonome iniziative’ dei cittadini nell’interesse generale.
Naturalmente non si potrà mai sapere con certezza se e quante vite e sofferenze si sarebbero potute risparmiare. Ma l’esperienza di altri paesi meglio organizzati nella difesa dai terremoti dimostra che la partecipazione attiva e consapevole dei cittadini nell’attività di prevenzione è uno dei fattori fondamentali per la riduzione del rischio. Se le amministrazioni locali abruzzesi e la protezione civile avessero applicato il modello dell’amministrazione condivisa nella fase precedente il terremoto, considerando i cittadini non come amministrati da tenere tranquilli, bensì come protagonisti consapevoli della propria stessa difesa dal terremoto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Sarebbe bastata, per esempio, una campagna di comunicazione pubblica per spiegare come attrezzarsi e come comportarsi in caso di scosse. Stando alle testimonianze dei sopravvissuti, sembra che anche cose molto semplici avrebbero potuto fare la differenza, per esempio tenere il cellulare, una torcia e una bottiglia d’acqua a portata di mano, non chiudere a chiave la porta di casa per poter fuggire più rapidamente, parcheggiare le auto in spazi aperti lontano dalle case per evitare che fossero danneggiate dai crolli e poterle poi usare come rifugio, e altri accorgimenti semplici che chiunque avrebbe potuto mettere in atto… purché qualcuno si fosse data la pena di dirglielo".