Il (nuovo) codice dei contratti pubblici ed il partenariato latu sensu sociale

La condizione del recupero di valore sociale dovrebbe essere letta come vera e propria condizione dell ' incentivazione stabilita negli art. 189 e 190

Nel proporre alcune riflessioni a prima lettura, non si può fare a meno di rilevare che, nonostante l’intervento riguardi materie già  oggetto di dibattito (anche Labsus si era preoccupato di mettere in luce alcune tensioni), il legislatore non sembra avere risolto tutti i dubbi a suo tempo sollevati e, per questo e per altre ragioni che saranno esaminate, appare quanto mai opportuna l’interposizione, nella definizione usata dal legislatore, della locuzione ” latu sensu ” .

L’inquadramento degli istituti nel partenariato contrattuale

Il partenariato pubblico privato contrattuale (pppc) disciplinato dal codice è un contratto a titolo oneroso in cui l’amministrazione affida attività  relative alla realizzazione, manutenzione e gestione di un’opera verso un corrispettivo che è dato dalla disponibilità  o sfruttamento economico dell’opera stessa o dalla fornitura di un sevizio che sia in relazione con la sua utilizzazione. Si tratta di contratti la cui funzione è quella non solo di consentire all’amministrazione di ottenere dai privati le risorse necessarie alla realizzazione delle opere, remunerandoli nel modo appena precisato, ma anche di spostare su questi ultimi il rischio derivante dall’attività  di sfruttamento economico del bene o di gestione del servizio connesso.

Il codice si preoccupa in generale di precisare i tipi contrattuali da utilizzare nel partenariato, ma prevede residuali ipotesi – come quelle del partenariato latu sensu sociale – in cui lascia alle amministrazioni la possibilità  di definire modelli diversi.

La atipicità  (o, se si vuole, la particolarità ) del partenariato sociale si manifesta, peraltro, in più direzioni, due delle quali non appaiono in questa sede trascurabili.

Innanzitutto, c’è da chiedersi, in relazione alle ipotesi di gestione previste, se la remunerazione del privato derivi, più che dalla disponibilità  delle opere, dalla riduzione o esenzione di tributi corrispondenti al tipo di attività  svolta, o dal beneficio della detrazione fiscale dei costi sostenuti. Inoltre, la progettazione è interamente lasciata al privato, fin dal livello preliminare, il che deve ritenersi eccezionale (il Consiglio di Stato aveva consigliato prudenza sul punto) rispetto all’obiettivo imposto dalla Comunità  europea di riportare la fase di progettazione all’amministrazione, lasciando ai privati l’esecuzione.

Gli interventi di sussidiarietà  orizzontale

L’art. 189 d.lgs. 50/2016 prevede due diverse ipotesi di contratti di partenariato latu sensu sociale: la gestione di aree e la realizzazione di opere di interesse locale (in entrambi i casi con indicazione di ipotesi, modi e limiti).

La gestione di aree riprende l’art. 4 l. n. 10/2013 sullo sviluppo degli spazi verdi. In particolare, il partenariato di gestione si deve rivolgere alle attività  di manutenzione; i beni interessati sono le aree ” riservate al verde pubblico urbano, gli immobili di origine rurale riservati alle attività  collettive sociali e culturali di quartiere (…) ceduti al comune nell’ambito delle convenzioni e delle norme previste negli strumenti urbanistici attuativi, comunque denominati ” . Sono esclusi però gli immobili ad uso scolastico e sportivo.

E’ facile osservare una sovrapposizione fra la disciplina dei contratti in esame e quella prevista dal successivo art. 190 sul baratto amministrativo. L’elemento differenziante appare tuttavia nell’accessorietà  del partenariato di gestione rispetto ai piani attuativi previsti dalla disciplina urbanistica, con possibilità  di riconoscere la prelazione in sede di affidamento in favore dei proprietari (quindi non di qualsiasi cittadino attivo) che, per godere di tale privilegio devono costituire un consorzio che raccolga non meno del 66% ” della proprietà  della lottizzazione ” .

L’istituto della realizzazione di opere di interesse locale, il cui precedente normativo è dato dall’art. 23 d.l.. 185/2008, prevede che esse siano di pronta realizzabilità  e vengano proposte da formazioni sociali (restando esclusa l’iniziativa di singoli) nel rispetto della disciplina urbanistica, di tutela storico-artistica e paesaggistico-ambientale, senza spese a carico dell’amministrazione, indicando costi e mezzi di finanziamento.

La disciplina consente l’attivazione di processi di coinvolgimento di personale e risorse organizzative pubbliche in un dialogo costruttivo con i proponenti, ma solo in fase di approvazione e ” se necessario ” . C’è da chiedersi se gli enti locali possano regolamentare in maniera incrementale lo spunto offerto dal legislatore nazionale per la costruzione di una relazione collaborativa fra amministrazione e cittadino.

Anche la nuova normativa prevede il rigetto tacito della proposta. Tale impostazione, già  in passato criticata, è probabilmente ispirata alla necessità  di evitare che siano realizzate opere su beni comuni, o che comunque diventeranno di proprietà  pubblica (le opere, infatti, ” sono acquisite a titolo originario al patrimonio indisponibile dell’ente competente ” ), senza un atto espresso di assenso.

Il baratto amministrativo

L’art. 190 riprende l’art. 24 del d.l 133/2014 (c.d. ” sblocca Italia ” ); in particolare, attribuisce agli enti territoriali il potere di deliberare criteri e condizioni per la conclusione di contratti di partenariato sociale, indicandone i presupposti necessari, il possibile oggetto, la disciplina agevolativa.

I presupposti sono la presentazione del progetto da parte di cittadini, singoli o associati, e l’inerenza dello stesso al territorio.

L’oggetto del progetto deve riguardare ” la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità  di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati ” .

E’ proprio l’ambito del regolamento per i beni comuni a suo tempo suggerito da Labsus, che vede molti enti locali italiani impegnati nell’utilizzazione del modello (cfr. le notizie censite anche su questo sito).

Rispetto alle agevolazioni tributarie previste, vale quanto osservato dal Giudice contabile con riferimento al testo previgente (cfr. Corte dei Conti, sez. E.R., par. 27 del 9.3.2016, consultabile in Labsus): la norma se per un verso soddisfa il requisito della riserva di legge ai fini del superamento del principio di indisponibilità  dell’obbligazione tributaria (il cui fondamento è rinvenuto negli artt. 23, 53, 97 Cost.), per altro verso condiziona il beneficio ad una delibera applicativa da parte dell’Ente locale che deve essere rispettosa dei presupposti e limiti sopra richiamati.

Il profilo problematico: sussidiarietà , cittadinanza attiva e rinuncia alla pretesa tributaria

La nuova disciplina può essere inquadrata in una dimensione della sussidiarietà  che, tuttavia, non appare orientata in maniera decisa verso l’obiettivo della crescita delle relazioni solidaristiche in un’ottica di partecipazione condivisa e dal basso alla gestione dei beni comuni.

In particolare, emerge una impostazione che definisce il modo in cui il legislatore ha inteso dare attuazione ad un preciso contenuto costituzionale della sussidiarietà : il ” favoriscono ” dell’art. 118 Cost. posto a carico degli enti che costituiscono la Repubblica, in relazione allo svolgimento di attività  di interesse generale da parte dei cittadini, singoli o associati, trova nelle norme esaminate una possibile attuazione nel riconoscimento in favore di questi ultimi di riduzioni o esenzioni di tributi.

Pur non apparendo de plano fugati i dubbi ed i timori sottolineati da molti rispetto ai precedenti normativi, il punto di interesse è che l’agevolazione non è costruita come corrispettivo, nella forma della datio in solutum (art. 1197 c.c.), rispetto al tributo – ipotesi la cui legittimità  era stata esclusa anche dal parere della Corte dei conti n. 27/2016 cit. -, ma invece come soluzione in termini di incentivazione in un’ottica di ottenimento della conformazione spontanea del privato rispetto ad un obiettivo di rilevanza generale, che è l’attuazione della solidarietà  attraverso prestazioni che non sono imposte, ma, appunto, assunte in sussidiarietà .

Non dovrebbe esserci, quindi, confusione fra la prestazione tributaria e la sussidiarietà , giacché non si determina un meccanismo sinallagmatico imposta/prestazione alternativa, bensìè lasciata agli enti territoriali la possibilità  di incentivare il ” recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini ” alla comunità  di riferimento (cfr. art. 190 cit.) trovando la relativa risorsa nella rinuncia totale o parziale alla pretesa tributaria.

La condizione del recupero di detto valore sociale dovrebbe essere letta come vera e propria condizione dell’incentivazione; tuttavia, tale condizione è esplicitata come necessaria solo per il baratto amministrativo e resta da recuperare in via interpretativa per gli (altri) interventi di sussidiarietà  orizzontale. Inoltre, appare a rischio il principio dell’inerenza dell’agevolazione rispetto all’attività  svolta.

Maggiore interesse suscita, invece, l’incentivazione fiscale attuata dall’art. 189 prevedendo che le spese per la progettazione e presentazione della proposta, nonché per la realizzazione delle opere, sono ammesse in detrazione fiscale (nel limite del 36%) in favore dei soggetti che le hanno sostenute.

La norma apre un’interessante prospettiva, circa il fatto che la spesa in attività  di interesse generale debba avere una ricaduta in termini fiscali, sebbene in linea di principio apparirebbe preferibile applicare una deduzione fiscale, cioè un abbassamento del reddito imponibile, che esprime meglio l’idea per cui il reddito speso a vantaggio di interessi della collettività  non debba essere – in tutto o in parte – tassato: la detrazione, infatti, fa tornare la suggestione della datio in solutum, operando sull’imposta da corrispondere e quindi facendo pensare piuttosto ad una rinuncia alla pretesa tributaria a seguito dell’adempimento del privato attraverso la (diversa) forma dell’investimento effettuato.

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