Con la sentenza 16 aprile 2018, n. 53, la Corte dei Conti si esprime sulla natura demaniale di alcune aree marittime inscritte nella laguna di Venezia, definendole beni comuni

Con la sentenza n. 53/2018, la Corte dei conti condanna al risarcimento del danno erariale taluni funzionari e dirigenti pubblici per la mancata determinazione e riscossione dei canoni concessori afferenti ad alcune aree marittime inscritte entro la laguna di Venezia, definendole, al contempo e per quanto di maggiore interesse in questa sede, “beni comuni”, sulla scorta di una linea argomentativa, fondata sul diritto positivo, su di una recente giurisprudenza, nonché di un risalente (ma sempre attuale) indirizzo dottrinario.

L’oggetto della sentenza

Con la sentenza n. 53/2018, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, si pronuncia sulla responsabilità amministrativa e contabile di alcuni funzionari e dirigenti pubblici, competenti, a vario titolo, in ordine alla determinazione e alla riscossione di canoni concessori, relativi ad alcune aree marittime, presenti all’interno della laguna di Venezia, ascrivibili in capo ad un Consorzio di cooperative di pescatori professionali (d’ora in poi “Consorzio”). In altri termini, come si evince dalla ricostruzione offerta dalla Procura regionale della Corte dei conti per il Veneto, promotrice della suddetta azione di responsabilità, il giudizio risulta essenzialmente orientato ad accertare l’esistenza (o meno) di un danno erariale, conseguente all’utilizzo delle aree lagunari in oggetto, da parte dei richiamati soggetti privati, in assenza – tuttavia – del versamento dei relativi canoni concessori, previsti, in via ordinaria, ai sensi di legge.

Il giudizio della Corte dei conti

Concessioni o autorizzazioni?

Ai fini del giudizio, i giudici contabili, dopo aver respinto alcune eccezioni di rito, sollevate dai convenuti, si pronunciano nel merito della controversia, al fine di verificare, anzitutto, l’eventuale assoggettamento del Consorzio e, più specificamente, delle cooperative di pescatori ivi rappresentate, al pagamento dei canoni concessori.
In questa prospettiva, il Collegio ritiene utile indugiare, in via preliminare, sulla qualificazione giuridica dei titoli in questione, a fronte delle posizioni rappresentate in giudizio dall’Organo requirente contabile e dalle difese delle parti convenute, che, rispettivamente e in estrema sintesi, invocano la figura concessoria e la figura autorizzatoria, con conseguente configurabilità del canone solamente nel primo caso.

La ricostruzione del quadro normativo e l’applicabilità della disciplina generale sulle concessioni di beni del demanio marittimo

Ebbene, i giudici contabili, muovendo da una nota giurisprudenza della Corte di Cassazione (esemplificativamente, si vd. Cass. civ., sez. unite, sentenza 14 febbraio 2011, n. 3665, ma anche Cass. civ., sez. unite, sentenza 16 febbraio 2011, n. 3811, oggetto di commento in questa rivista) e del Consiglio di Stato (si vd., recentemente, Cons. St., sez. V, sentenza 26 aprile 2018, n. 5372, anch’essa oggetto di commento in questa rivista), riconoscono, anzitutto, le aree lagunari in oggetto quali beni demaniali marittimi (ex art. 822 c.c. e art. 28 cod. nav.), soggetti – in quanto tali – ad un peculiare regime giuridico, delineato ai sensi di legge. In tale ambito, i giudici individuano una serie di norme applicabili al caso di specie, essenzialmente riconducibili a talune previsioni presenti nel richiamato codice della navigazione e nel connesso regolamento attuativo. In particolare, con riferimento al primo, risalta l’art. 36, ai sensi del quale «l’amministrazione marittima [identificata nel Magistrato alle Acque (ora Provveditorato interregionale per le opere pubbliche) di Venezia (d’ora in poi “Mav”)], compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Con riferimento al secondo, rileva principalmente l’art. 19, il quale detta una disciplina analitica del contenuto dell’atto di concessione, imponendo, tra le altre cose, l’indicazione del relativo canone.
In altre parole, tale ricostruzione induce i giudici a ritenere applicabile al caso di specie la disciplina generale sulle concessioni di beni del demanio marittimo, non rilevando, a tal riguardo, la tesi sostenuta dalle difese delle parti convenute, che riconduce i provvedimenti rilasciati dal Mav alle cooperative entro l’alveo della fattispecie autorizzatoria, sulla base, tuttavia, di argomentazioni non convincenti, legate, essenzialmente, a profili formali – concernenti, in specie, la denominazione degli atti e l’omessa indicazione della misura dei relativi canoni – nonché prive di un puntuale inquadramento giuridico.

Il richiamo alla tradizionale (ma sempre attuale) tesi guicciardiniana sui beni demaniali

In coerenza con questa impostazione, inoltre, la Corte dei conti, muovendo dalla classica tripartizione guicciardiniana, che distingue i beni demaniali in ragione della loro differente destinazione d’uso, sostiene che i provvedimenti in parola implichino un uso eccezionale, non invece speciale e men che meno ordinario delle aree marittime in oggetto. Più in particolare, sulla base di questo inquadramento teorico-giuridico, il Collegio ritiene che i provvedimenti emessi dal Mav legittimino un uso eccezionale e/o esclusivo, idoneo a consentire a determinati soggetti imprenditoriali l’esercizio di attività di impresa – nella fattispecie l’allevamento di vongole destinate alla vendita sul mercato – o, detto altrimenti, il soddisfacimento di interessi particolari, con (inevitabile) sacrificio degli interessi generali, originariamente sottesi ai beni in questione.

La tesi prospettata dai giudici contabili sotto la lente d’ingrandimento: alcuni approfondimenti

Al fine di supportare pienamente la propria tesi, in ultimo, il Collegio si sofferma su alcune questioni di maggior dettaglio, che, dunque, impongono un richiamo, quantomeno parziale e centrato sui profili che destano maggiore interesse.
Innanzitutto, i giudici confermano l’applicabilità della disciplina generale sulle concessioni di beni del demanio marittimo al caso di specie, data la perfetta sovrapponibilità tra le due fattispecie di atto prese a riferimento: quella delineata – in concreto – dal Mav e quella desumibile – in astratto – dalla lettura della richiamata disciplina positiva. Conseguentemente, la Corte, con particolare riferimento alla omessa indicazione del canone concessorio, sottolinea, in ogni caso, l’applicabilità dell’art. 36, cod. nav., escludendo, così, ipotesi differenti, emerse nel corso del giudizio.
A tal riguardo, peraltro, il Collegio evidenzia che, anche a prescindere da quanto specificamente previsto nella richiamata disciplina sui canoni concessori, il rilascio dei titoli abilitativi in oggetto avrebbe dovuto essere configurato comunque in termini onerosi, specie perché volto a determinare in capo al beneficiario «un vantaggio economico competitivo di natura particolare (in contrapposizione alla destinazione oggettivamente “comune” del bene)».
I giudici, inoltre, facendo leva sui comuni criteri ermeneutici desumibili dalla lettura dell’art. 1362 e seguenti del codice civile, afferenti all’interpretazione dei contratti, i quali – lo si ricorda – per costante giurisprudenza, trovano applicazione anche agli atti amministrativi, ritengono priva di fondamento giuridico la tesi (promossa dalle difese di tutti i convenuti), volta a ricondurre i titoli in oggetto nell’alveo di una figura autorizzatoria “provvisoria”, a scopo sperimentale, non finalizzata allo sfruttamento economico e nondimeno caratterizzata da gratuità. Parimenti, il Collegio respinge anche alcune ulteriori doglianze volte a rivendicare la natura autorizzatoria dei suddetti titoli abilitativi.
Tanto precisato in ordine alla natura del rapporto e alla sua necessaria onerosità, il Collegio si sofferma su profili che non destano particolare interesse ai fini della presente analisi, concernenti, rispettivamente, la ricostruzione del quadro giuridico applicabile al caso di specie con riferimento alla determinazione dei canoni per attività di pesca/acquacoltura; l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa e il nesso di causalità; nonché, in ultimo, la determinazione del quantum del danno imputabile ai convenuti.
Il giudizio si conclude con una sentenza di condanna al risarcimento del danno erariale, imputabile in capo ai convenuti ritenuti responsabili della mancata determinazione e riscossione dei canoni concessori.

Il commento alla sentenza

Il contributo della sentenza al dibattito sui beni comuni

Come si evince da quanto esposto fino ad ora, la sentenza riveste interesse, specie perché interviene sul tema dei beni demaniali e, specularmente, sul tema dei beni comuni.
Difatti, con questa sentenza, i giudici contabili, rimarcando, anzitutto, con riferimento ai beni demaniali, l’esistenza di un duplice regime giuridico di appartenenza, riconducibile in capo alla comunità e/o collettività – in via principale e/o originaria – e agli enti pubblici territoriali ex art. 114, Cost. – in via derivata e/o indiretta – sembrano affermare, in ultimo, che tali beni risultano prioritariamente destinati al soddisfacimento di interessi generali, da parte della collettività, configurando, in questo senso, dei beni comuni, vale a dire dei beni essenzialmente connotati dal punto di vista funzionale e idonei, in via precipua, a realizzare interessi plurimi e diversificati, da parte di tutti i cittadini.
Si tratta di un’impostazione che, invero, ben si attaglia al caso di specie, concernente le aree demaniali lagunari. Difatti, come si evince dalla lettura della sentenza, tali beni risultano idonei a soddisfare molteplici e diversificati interessi, riconducibili in capo sia alle richiamate cooperative di pescatori sia alla generalità dei consociati, concernenti, in specie, nel primo caso, l’esercizio di attività di impresa, mediante lo sfruttamento – esclusivo – dei fondali (che risultano – lo si ricorda – strettamente funzionali all’allevamento delle vongole), nel secondo, l’esercizio di plurime attività, quale, ad esempio, il transito sugli specchi acquei sovrastanti. In altri termini, la ricostruzione offerta dai giudici contabili ammette un uso esclusivo del bene demaniale (vale a dire esclusivamente riservato a determinati soggetti) e – contestualmente – aperto alla generalità dei cittadini, con particolare riferimento alla componente ambientale non oggetto di sfruttamento privato. Tale impianto, peraltro, sembrerebbe, almeno in parte, coerente rispetto a quanto previsto nell’art. 36, cod. nav., ai sensi del quale il rilascio della concessione demaniale da parte dell’amministrazione competente dovrebbe legittimare – di regola – un uso non esclusivo del bene, piuttosto che esclusivo, il quale costituirebbe, di conseguenza, un’ipotesi eccezionale.

Alcuni spunti di riflessione conclusivi

Insomma, come si è avuto modo di constatare, questa sentenza costituisce certamente un valido ausilio al dibattito sui beni comuni (specie ambientali), inducendo, inoltre, a riflettere sulla natura complessa e composita sottesa ai beni demaniali lagunari e sulla conseguente necessità di promuovere idonei approcci regolatori e/o regolamentari. Così, volendo svolgere un’ultima riflessione di carattere generale, a partire dal caso trattato in sentenza, sembra possibile sostenere, in conclusione, che le autorità marittime competenti tout court al rilascio delle concessioni di cui all’art. 36, cod. nav. siano chiamate ad un corretto esercizio del proprio potere discrezionale, potendo, certamente, concedere un uso esclusivo del fondale marino per fini privatistici (il quale, invero, mal si presta ad una fruizione ampia e generalizzata, quantomeno diretta, da parte della collettività), a condizione che, tuttavia, garantiscano o, almeno, non ostacolino, al contempo e per quanto possibile, la fruizione dell’area marina sovrastante (specie l’area superficiale), da parte di tutti i consociati.



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