Che il programma culturability sia un punto di riferimento per tante realtà che in modi e contesti diversi sperimentano la trasformazione culturale in Italia è un fatto ormai risaputo. Giunti alla sesta edizione, Fondazione Unipolis, promotrice del bando, chiude un ciclo e reinventa in parte il programma, riattualizzando obiettivi, ridefinendo tempi e destinatari. Per i contenuti puntuali del bando (in scadenza il prossimo 16 giugno) rimandiamo direttamente al sito. Con la responsabile Roberta Franceschinelli approfondiamo invece alcuni contenuti chiave per comprendere il valore aggiunto del programma e ragionare sul possibile impatto, riprendendo alcuni dei principali temi di discussione dello Stato dei Luoghi, la “Rete nazionale di attivatori di luoghi e spazi rigenerati a base culturale” di cui anche Labsus fa parte.
Partiamo dalle basi: cosa significa fare innovazione culturale secondo Fondazione Unipolis? Come spiegheresti il concetto ai non addetti ai lavori?
«Nel corso degli ultimi anni il mondo della cultura italiano è stato attraversato da un processo di trasformazione con l’emergere di nuove organizzazioni e nuovi linguaggi che stanno cambiando, almeno in parte, le regole del gioco nel rapporto tra pubblici, istituzioni e cultura. L’innovazione si può praticare a tanti livelli, nei modi di progettare, produrre, distribuire o fruire cultura; può riguardare l’aspetto del prodotto, del servizio o anche la sperimentazione di nuovi approcci e processi.
Sotto l’etichetta “innovazione culturale” si tengono assieme pratiche differenti e c’è un forte rischio di semplificazione, ma credo si possano ravvisare alcuni tratti comuni. L’affermazione di forme di produzione culturale dal basso, il mutamento nella relazione tra comunità di produttori e fruitori di cultura, la ricerca di forme differenti di sostenibilità economica orientate a nuovi modelli di funding mix che non possono essere appiattite o ridotte alla sola questione del “fare impresa culturale” (la questione è semmai quella di come la progettazione diventa “intrapresa”), l’attenzione ai processi e l’organizzazione di meccanismi community management, una profonda riflessione su quale sia la responsabilità sociale del fare cultura e di come investa le sfere della cittadinanza e della partecipazione alla vita democratica. C’è anche una connotazione generazionale che caratterizza questo fenomeno. In questo universo, una forte rilevanza spetta ai nuovi centri culturali nati da esperienze di attivismo, spazi ibridi e laboratori che pongono al centro pratiche di innovazione culturale e artistica, sociale e civica».
Perché puntare su questa tipologia di centri culturali – quasi inscindibili dalla loro componente di aggregazione sociale – in un momento storico come questo? Quale ruolo credi che possano giocare nel futuro prossimo del post-emergenza?
«In questa fase di crisi – non solo sanitaria, ma anche economica, sociale e culturale – questi centri possono rivestire un ruolo fondamentale. Anche per questo, abbiamo deciso di confermare il lancio del nuovo bando culturability lo scorso mese di aprile. Per evitare che la distanza fisica si traduca in un desiderio di distanziamento sociale, è necessario superare la paura dell’altro, costruire nuova fiducia e ricucire le relazioni. I centri culturali ibridi rappresentano un’infrastruttura culturale di prossimità da cui poter ripartire prendendosi cura dei cittadini, nel corso di questi anni hanno già dimostrato di saperlo fare diventando presidi di un nuovo welfare generativo. Attraverso pratiche culturali collaborative, coinvolgono pubblici e comunità diversi, realizzando processi di attivazione e coesione sociale. Dopo questi mesi, c’è un desiderio di aggregazione, che va coltivato e “rigenerato”, a cui va fornita una risposta sicura. Questi luoghi possono darla. La sfida è allora consentire loro di poter riprendere le proprie attività perché non basta riaprire per poter ripartire».
Il nuovo bando si distingue dai precedenti soprattutto per essere all’insegna del consolidamento, rivolgendosi alle realtà attive da almeno due anni. Si tratta di un’istanza venuta dagli attori incontrati in questi anni? Quali sono le maggiori criticità che emergono dalle pratiche e a quali culturability offre risposte?
«Il bando culturability 2020-22 è frutto di un lungo lavoro di progettazione non solo interna, ma anche del processo di confronto e apprendimento vissuto con tutte le iniziative incontrate durante le cinque edizioni della call. Nel corso di questi anni abbiamo contribuito a far nascere molti spazi culturali. Crediamo sia giunto il momento della maturità e del consolidamento per noi e per le tante realtà diffuse in tutta la penisola. Per questo, il bando intende favorire la crescita e il rafforzamento dei centri culturali innovativi già attivi in Italia. Non è finalizzato a far emergere nuove progettualità, ma ad accompagnare luoghi nati da alcuni anni attraverso processi di rigenerazione. Spostiamo così l’oggetto dai luoghi rigenerati ai luoghi rigeneranti, che abbiano intrapreso negli anni passati percorsi di rigenerazione e trasformazione dei contesti e delle comunità di riferimento.
Venendo alla seconda delle tue domande, abbiamo avviato un lavoro di valutazione e monitoraggio di culturability, con l’obiettivo di raccogliere informazioni puntuali sullo stato di esistenza e avanzamento delle iniziative sostenute, identificare gli effetti che il bando ha avuto sugli attori coinvolti dai processi attivati e identificare ipotesi di sviluppo futuro per il programma. L’indagine, attualmente in corso di integrazione e aggiornamento con informazioni legate alle iniziative delle ultime edizioni, ha dato un quadro delle peculiarità, dei punti di forza e di debolezza delle progettualità intercettate, in parte estendibili anche ad altri spazi riattivati con finalità culturali e sociali. Da questo lavoro è emersa forte l’urgenza di accompagnare in un percorso di consolidamento i nuovi culturali nati con processi bottom up nel corso di questi anni, sostenendo quindi realtà che abbiano già superato la fase di primo sviluppo. I progetti che lavorano sugli spazi culturali fisici incontrano numerose difficoltà nel corso della loro crescita. Alle complessità tipiche della prima fase (per esempio la riqualificazione dell’immobile), se ne aggiungono altre, che connotano il periodo successivo a quello del primo slancio e sono connesse con la sostenibilità economica, la coesione interna, un piano di investimenti necessario (ma spesso incompatibile con la fragilità patrimoniale e reddituale delle organizzazioni), la revisione continua del proprio sistema di offerta, spesso il rinnovo e l’allungamento del periodo di concessione del bene immobile. Per questo, il bando 2020-22 si rivolge a centri culturali che sono al “secondo miglio del loro percorso”, in quella fase di mezzo in cui il potenziale di sviluppo si scontra con il rischio di un fallimento o di restare in uno stadio intermedio di “fragile sostenibilità”, in primis economica».
Ci sono delle competenze particolari di cui queste esperienze sono tendenzialmente carenti? Quali competenze specifiche sono invece poco valorizzate (o del tutto ignorate…) dalle politiche pubbliche di sviluppo dei territori?
«L’esperienza di accompagnamento ai progettisti fatta nel corso di questi anni, così come ribadito dall’indagine a cui facevo riferimento prima e da un’altra ricerca attualmente in corso promossa da Unipolis in collaborazione con Università IUAV e Master URISE, ci ha mostrato come all’interno degli spazi culturali di nuova generazione si stiano creando nuove professionalità con skills alte ed eterogenee. Dietro questi centri culturali, ci sono professionisti molto qualificati: hanno studiato per anni, sono laureati, hanno frequentato master e conseguito dottorati, hanno trascorso periodi all’estero e parlano lingue straniere. Attraverso il loro ruolo all’interno di questi spazi, crescono e maturano ulteriormente, non solo quelle hard, ma in primis le proprie soft skills, per citarne alcune: leggere un territorio, pianificare, mettere in atto e valutare, assicurandosi che il proprio progetto sia sostenibile nel tempo, impostare un modello organizzativo basato sulla leadership collaborativa, relazionare con soggetti diversi, generare fiducia… Le competenze più carenti sono, invece, spesso quelle legate agli aspetti economici e finanziari».
Nell’ambito della Rete nazionale di rigenerazione urbana, in particolare durante l’incontro di Sansepolcro, si è parlato molto della necessità di innovazione anche a livello amministrativo e gestionale. Quanto è opportuna – e se sì in che modo – la sperimentazione di forme di amministrazione condivisa di questi luoghi come beni comuni?
«I centri che innescano processi di innovazione sociale e di coinvolgimento comunitario non possono prescindere da una relazione con gli enti locali, in primis con il comune di riferimento. Ovviamente, la relazione è resa più stretta e complessa dall’eventuale proprietà pubblica del bene immobile. In ogni caso, il fine culturale e sociale di queste progettualità rende necessario un rapporto che va al di là di questioni meramente connesse a permessi o questioni giuridiche. Dal lavoro di monitoraggio condotto sulle iniziative intercettate con culturability nel corso degli anni è apparso chiaro che i centri culturali frutto di processi spontanei, promossi da attori locali non istituzionali, spesso colgono alla sprovvista le amministrazioni pubbliche del tutto impreparate a gestire proposte non ordinarie. Ciò spiega in parte le difficoltà incontrate dagli operatori nel costruire una relazione positiva con gli uffici comunali, soprattutto nel caso in cui il progetto preveda la riattivazione di spazi di proprietà pubblica. Non mancano ovviamente le esperienze positive ma hanno fin qui rappresentato delle eccezioni dovute non sempre a scelte politiche dei comuni di riferimento, quanto dalla sensibilità dimostrata da singoli funzionari. Il rapporto con la PA rimane quindi difficile, ma essenziale ed è un valore aggiunto la capacità di creare sinergie e allinearsi alle strategie della pubblica amministrazione per il territorio. I centri culturali ibridi sono diventati dei laboratori di innovazione amministrativa, sia per il nodo rappresentato dall’affidamento di spazi, sia come esperimenti di partnership pubblico private.
L’amministrazione condivisa di questi spazi non è l’unica soluzione, ma rappresenta certamente una soluzione interessante sulla quale confrontarsi e avanzare nuova conoscenza da sviluppare sul campo. Da questo punto di vista, la rete de Lo Stato dei Luoghi sta già svolgendo, e potrà svolgere a maggior ragione in futuro dopo la sua costituzione, un ruolo fondamentale, testando l’innovazione amministrativa e supportando le sperimentazioni in corso in tema di partenariati pubblico-privati e nuove forme di gestione dei beni comuni».
Foto di copertina: Luis Alfonso Orellana su Unsplash