Palazzo dei Cavalieri dell'Ordine Mauriziano: un bene culturale abbandonato e degradato che può tornare a vivere grazie ai cittadini attivi

La sezione “Ricerche” pubblica la tesi di laurea di Marianna Sanasi, che conduce una ricerca sui beni comuni e la valorizzazione del patrimonio culturale, presentando il caso di un bene culturale abbandonato e degradato come Palazzo dei Cavalieri dell’Ordine Mauriziano, nell’isolato di Santa Croce a Torino. Nel lavoro di ricerca si tenta di dimostrare come la collaborazione tra le istituzioni e i cittadini attivi possa interessare anche i beni culturali abbandonati e degradati, così da poter ridare lustro e nuova vita a tutto il centro urbano e far ripartire l’economia cittadina.

I beni culturali come traccia del passato

I beni culturali sono la testimonianza palpabile della storia e della memoria di un luogo. Il loro valore non è solamente una questione estetica ma essi raccontano le radici, identificano le comunità e narrano i cambiamenti che nel tempo definiscono le società. Molti di essi però per via di molteplici cause, tra cui mancanza di fondi, scarsa visibilità turistica e particolare conformazione spaziale, spesso non beneficiano di recupero, poiché questo comporterebbe l’impiego di ingenti risorse e perciò non vengono utilizzati. La loro perdita o il deterioramento cancella progressivamente la possibilità di entrare in contatto dal vivo con il passato, con il rischio evidente di perderne le tracce.

Una soluzione alternativa per la tutela e la valorizzazione

L’ipotesi sviluppata in questa tesi è quella di valorizzare questi spazi all’interno delle città superando gli ostacoli che si frappongono all’attuazione delle politiche di tutela con l’intervento della cittadinanza attiva. È possibile, infatti, non solo ridare lustro ai centri urbani, ma anche fornire delle concrete opportunità di rilancio per l’economia, grazie all’aumento dell’indotto generato da un riutilizzo dei beni, che favorirebbe anche un miglioramento delle condizioni sociali nelle aree circostanti ai siti d’intervento. Questa soluzione si porrebbe come alternativa alla vendita degli immobili culturali a soggetti privati interessati alla loro valorizzazione solo a fine di un personale profitto.
In tal modo si concretizzerebbe un rapporto mutuale tra i luoghi rivalutati e la popolazione, creando oltre a benessere sociale anche un legame emotivo-empatico con i siti. L’amministrazione sarebbe inoltre supportata nell’onere di investire sulla loro tutela, realizzando così una collaborazione tra le istituzioni e i cittadini fondata su responsabilità e fiducia reciproca.
Il mancato utilizzo di certe opere architettoniche che porta al loro progressivo decadimento sarebbe fronteggiato dal ripristino e dalla manutenzione ordinaria svolta all’interno di esse. Queste verrebbero restituite come spazi alla comunità, evitando così la progettazione di nuove costruzioni, spesso causa di abbandono di aree già edificate e nuovi consumi di suolo, dannosi per il paesaggio.

Dalla teoria alla pratica

La teoria dei beni comuni, in estrema sintesi, viene sviluppata negli anni Sessanta a partire dagli studi di Garrett Hardin e successivamente approfondita dalle ricerche condotte da Elinor Ostrom sui common goods. A questa corrente di pensiero è possibile collegare anche la proposta di legge di Stefano Rodotà, che promuove in Italia l’introduzione nel Codice Civile della nuova dicitura di “bene comune” come alternativa alla concezione duale della proprietà. Questi “sono beni che non coincidono né con la proprietà privata, né con la proprietà dello Stato, ma esprimono dei diritti inalienabili dei cittadini. […] Tutti ne possono godere e nessuno può escludere gli altri dalla possibilità di goderne. […] Ciò implica che non possono essere privatizzati né sottoposti a restrizioni. […] accedere a questi beni fondamentali deve poter avvenire senza bisogno né dell’intermediazione della proprietà, quindi pagando, né della concessione pubblica, cioè dello Stato”.
Queste teorie si sono concretizzate in diversi modi nella pratica, dall’azione diretta dei cittadini al dialogo con le istituzioni. Sono partiti dei movimenti di rigenerazione dal basso nati non solo con l’idea di riappropriarsi degli spazi ma con l’intento della salvaguardia. Questi casi mostrano come sia possibile riutilizzare, con nuove funzioni sociali, le strutture che vengono abbandonate, per farle rivivere con servizi per la cittadinanza, che, essendo essa stessa a conoscenza delle proprie necessità, riesce ad adattarle in modo da sopperire alle proprie esigenze.
Uno degli esempi dell’azione partecipata dal basso, sito nel cuore di Torino, proprio come il Palazzo dei Cavalieri, è stato quello della Cavallerizza Reale. In questo caso la cittadinanza si è mossa con fini di salvaguardia del bene e per la riappropriazione di uno spazio che era invece stato posto in vendita dal Comune. Il fine del movimento è stato quello di provare a contribuire attivamente alla sua riqualificazione e al suo riutilizzo. Per questo è stato chiesto al Comune di soprassedere al piano di alienazione e smembramento del bene e aprire una proposta di progettazione partecipata. È stato suggerito un concordato con la pubblica amministrazione per la gestione condivisa del bene, che avrebbe conferito alla Cavallerizza delle reali possibilità di restauro, supportate da una rivalutazione progettata per la sua tutela e valorizzazione e dalla possibilità di ottenere quindi lo status di bene comune.
Si è quindi resa evidente la necessità di sviluppare una cornice normativa per definire un dialogo tra cittadini attivi e Comuni. Sulla base delle esperienze concrete avviate dal Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni e sulla scorta delle suggestioni suscitate della proposta di legge del Comitato Rodotà, queste esperienze hanno potuto giovarsi di importanti riferimenti anche normativi. Il Regolamento infatti ha dato ai cittadini uno strumento nuovo, che parte da un confronto paritario con le istituzioni per promuovere l’interesse generale nell’azione di riappropriazione e rigenerazione di luoghi abbandonati o trascurati, con la “sicurezza” dei patti di collaborazione.

L’effetto pedagogico – da cosa nasce cosa

Prova del buon esito di queste pratiche di cura dei beni comuni è data, per i cittadini e per le amministrazioni, dal fatto che la crescita economica avviene nel momento in cui una zona appare più sicura, più coesa se sono i cittadini stessi a promuoverne il progresso. Si instaura così un effetto a catena, in cui la comunità traina, attraverso i suoi membri più attivi, i singoli individui, che non sono più singoli ma parte di un complesso con un forte senso di appartenenza che facilita l’integrazione e crea aggregazione sociale producendo un valore aggiunto all’area. “Quando i cittadini si prendono cura dei beni comuni – scrive Gregorio Arena – producono un valore aggiunto straordinario che è il capitale sociale, perché tutto questo produce senso di appartenenza, facilita l’integrazione, crea coesione sociale. Ha tutta una serie di effetti positivi che non si vedono e che sono molto più importanti degli effetti materiali, tutto questo libera energia”. Gli ultimi contributi a questa teoria dimostrano che tale metodo di partecipazione attiva possa ottenere un effetto pedagogico sul vicinato, per cui il rispetto dei luoghi comuni diventa legge non scritta della comunità. Si può dunque considerare che l’elemento caratterizzante di questo esperimento sia la solidarietà, fondamentale per la realizzazione dell’attività, che, infine – in virtù anche del principio di sussidiarietà orizzontale e grazie a forme di resilienza –, può contribuire a generare nuovi strumenti di welfare.

L’ipotesi progettuale per il Palazzo dei Cavalieri

La finalità del lavoro svolto in questa tesi è stata quindi quella di definire un processo in cui un bene culturale, quale il Palazzo dei Cavalieri dell’Ordine Mauriziano, possa essere utilizzato dai cittadini che desiderano farsi carico della responsabilità della manutenzione dello stabile, ottenendo in cambio la possibilità di utilizzare e cogestire gli spazi a seguito di un “accordo” con l’amministrazione comunale e con la proprietà, sulla base di un rapporto di mutua fiducia da parte di entrambi i soggetti. Nell’amministrazione condivisa questo accordo è sancito dai patti di collaborazione, atti negoziali che nel quadro del Regolamento permettono ai cittadini attivi e al comune di collaborare nell’ambito della cura, rigenerazione o gestione condivisa dei beni comuni.
Alla luce delle ricerche, delle analisi e delle stime effettuate durante lo svolgimento della tesi è emerso che la conservazione di manufatti di pregio e di spazi esistenti non utilizzati, di cui la pubblica amministrazione non abbia la possibilità di prendersi cura, possa avvenire anche grazie alla trasformazione di questi in beni comuni. Essi diverrebbero così patrimonio della comunità, cui spetterebbe la tutela e la valorizzazione del loro utilizzo.
È auspicabile perciò che questo tipo di esperienze vengano divulgate in modo da ottenere una maggiore pubblicità a beneficio di tutte quelle strutture che, come il Palazzo dei Cavalieri, possono ritrovare un’adeguata funzione se messe a servizio dei cittadini.

Immagine di copertina dell’autrice