La scuola oggi è al centro di un rinnovato interesse all’interno del dibattito pubblico e politico, soprattutto in Italia. La pandemia, infatti, ha reso evidente e innegabile un processo di deterioramento fisico (legato ai suoi spazi), pedagogico (legato ai modelli educativi) e sociale (legato al ruolo, la rappresentanza e le competenze della sua comunità di riferimento) che da tempo investe questa infrastruttura territoriale. Lo spazio della scuola, nell’essere stato messo a dura prova, nel suo essere stato a lungo tempo negato, ha subito un processo di svelamento e nuova affermazione. Rappresenta oggi un luogo che più che mai merita di essere descritto, pensato e progettato.
Dal progetto del distanziamento al progetto di cura
Purtroppo però, negli ultimi mesi, l’enfasi verso la riapertura degli edifici scolastici spesso si è ridotta ad un ‘progetto del distanziamento’ e di messa in sicurezza, tralasciando come il disintegrarsi di questo servizio pubblico nei mesi passati abbia avuto importanti ripercussioni sul sistema socio-culturale del Paese (si pensi solo alle previsioni sull’abbandono scolastico o dell’indice di povertà educativa).
Occuparsi della scuola oggi non significa solo risolvere i problemi operativi imposti dal distanziamento fisico, migliorare l’accessibilità per la didattica a distanza, o ancora occuparsi della manutenzione degli edifici scolastici, ma può anche essere l’occasione per una profonda riflessione sul modello pedagogico e sugli obiettivi allargati al modello sociale che si vuole perseguire. Nel ripensare e adattare la scuola per la riapertura, però, molto è stato trascurato in tal senso. Sono state messe da parte le forme di didattica innovativa tanto discusse (si pensi per esempio all’enfasi rispetto all’outdoor education durante il lockdown), è stata ignorata la comunità educante allargata che costituisce da tempo (almeno dal DPR 275/99 sull’Autonomia Scolastica) parte integrante del sistema scolastico, sono state annullate le alleanze e i rapporti di fiducia e relazione casa/scuola in favore di protocolli standardizzati.
Le scuole sono da sempre laboratori di sperimentazione e innovazione sociale, manca però una consapevolezza in tal senso, una condivisione e maggiore comunicazione delle singole esperienze per una messa in rete e sistematizzazione di quei progetti che possono rappresentare un supporto ed una forma di resistenza all’importante processo di omologazione in atto.
Esiste un bagaglio di progettualità da cui possiamo partire e che hanno la forza di mostrare confini e geometrie diverse della dimensione scolastica rispetto alle semplificazioni assunte fin ora. L’esperienza delle “scuole aperte e condivise” (nell’accezione ampia e articolata mostrata da Gianluca Cantisani, presidente del Movi) che in questi anni si sono concretizzate in maniera capillare in tutta Italia possono rappresentare una delle prese, delle àncore di salvezza, intorno a cui costruire un diverso pensiero.
Le scuole aperte e condivise come osservatori dell’attivismo di comunità
Le scuole aperte e condivise si basano sul principio che c’è uno spazio non solo fisico ma sociale da riempire, mettono al centro l’idea che la scuola rappresenti, ancora prima di essere un servizio pubblico e un diritto inalienabile, un ‘bene comune’ per il territorio e la comunità e che, in quanto tale, può essere gestito in maniera collettiva e usato in maniera aperta. Sono esperienze che nel costruire un uso misto nei tempi e nei modi dello spazio scolastico mostrano un’idea diversa di modello pedagogico. Un modello che non delega al cittadino la manutenzione dello spazio scolastico, ma che abilita la comunità scolastica ad un suo utilizzo più flessibile. Si tratta di trasformare le Scuole in veri e propri “poli civici” sperimentando la «condivisione nella progettazione delle attività e nella gestione degli spazi» (Cantisani, 2014). Si tratta di scardinare l’idea della scuola come semplice ente di erogazione dell’istruzione e trasformarlo in uno spazio di sperimentazione e di condivisione di un progetto educativo a cui tutti possono contribuire. In questo senso le esperienze delle scuole aperte, che in questi anni si sono concretizzate in maniera capillare ma frammentata in Italia, possono costituire un database dal quale partire per ripensare un modello differente. Sono progetti che ampliano i confini scolatici, che portano la scuola al di là del proprio cancello non per il fine del distanziamento (che comunque viene perseguito) ma per ribaltarne il senso verso una maggiore inclusione: un luogo in cui esercitare “pratiche di cura” intese come esperienze di relazione con la società e l’ambiente (Fischer, Tronto, 1990).
Ripartire dalla scuola: l’importanza delle comunità educanti
Lavorare sul modello delle scuole aperte e condivise oggi richiede un progetto integrato tra saperi, competenze, attori. E una profonda riflessione sul ruolo e sulle geometrie della comunità educante.
Perché queste ultime hanno un ruolo così centrale? Ci sono almeno due questioni che vorrei sottolineare a riguardo. Provare a ricostruire la formazione della comunità educante oggi permette di:
- costruire una panoramica dettagliata degli attori che gravitano intorno alla scuola: ci fornisce informazioni rispetto alle loro competenze e passioni, al loro ruolo, al modo in cui collaborano e/o potrebbero collaborare nella gestione della scuola come Bene comune. Di mappare i modelli di governance già sperimentati in tal senso. Di capire la risposta degli studenti e dei bambini in tal senso. Partendo da queste esperienze si possono così creare i contorni di un progetto educativo che sfrutta il coinvolgimento della comunità intera (composta in primis da studenti, insegnati, dirigenti e ausiliari ma anche da genitori, ex studenti, associazioni, liberi cittadini) per innestare un processo di co-progettazione dello e nello spazio, in cui i diversi soggetti sperimentano e mettono alla prova il loro ruolo costruendo e definendo modalità di protagonismo sociale, interazione e cooperazione;
- lavorare sui progetti formali e informali che riguardano la comunità scolastiche ci permette di disegnare i confini reali delle scuole. Ci permette di mappare lo spazio nei suoi usi, al di là degli aspetti giuridici e proprietari. Uno spazio allargato non perché dettato dal distanziamento ma dalle pratiche che li attraversano e dal significato che assumono per la comunità. Si tratta di dare una nuova centralità alla scuola nella fruibilità dei territori, si tratta di immaginare progetti e politiche che rimettano la “scuola al centro” (recentemente molti progetti e politiche europee stanno delineando questa rotta. Uno tra tutti il programma Contract Ecole di Bruxelles, che individua nella scuola un dispositivo in grado di agire come agente di rigenerazione urbana e sociale di un territorio).
“Ripartire dalla scuola” è quindi prima di tutto un monito, un invito a prenderci “cura” delle infrastrutture fisiche e sociali che costituiscono la base del nostro Paese e ripartire da queste per una nuova idea di socialità.