Le piattaforme digitali cooperative francesi vogliono inviare le risorse del Piano di ripresa per l'Europa a coloro che agiscono nell'interesse generale

Daniela Ciaffi intervista Nicole Alix, presidente de La coop des Communs, e Jean-Louis Bancel, presidente di Coop France e di Cooperatives Europe

Come nasce questa intervista? Circa sei mesi fa Gianluca Salvatori scriveva su Vita un articolo in cui il governo italiano veniva spronato a guardare alla Francia: «Il piano francese per l’utilizzo dei fondi di Next Generation EU parte da una premessa: l’economia sociale è una delle chiavi di lettura attraverso cui leggere l’intera strategia di rilancio. Non un settore tra i tanti al quale destinare una frazione delle risorse disponibili, ma un modello economico». A partire da questo stimolo ci siamo chiesti se, e come, anche i francesi attivi nella cura dei beni comuni saranno supportati economicamente. Nicole Alix, presidente de La coop des Communs, e Jean-Louis Bancel, presidente di Coop.fr e di Cooperatives Europe, ci aiutano a capire un po’ meglio cosa sta succedendo al di là delle Alpi, invitandoci a fare massa critica presso i decisori europei affinché le logiche sussidiarie orizzontali possano ispirare anche le politiche di contrasto alla crisi pandemica.

Ci rivolgiamo a Jean-Louis Bancel per chiedergli: quali reazioni ha potuto osservare in questi mesi rispetto al piano europeo e qual è la sua interpretazione del dibattito in corso?

Al termine di lunghi e difficili dibattiti, i capi di Stato e di governo hanno adottato, il 21 luglio 2020, un ambizioso piano da 750 miliardi di euro per finanziare piani nazionali che consentano di contrastare gli effetti della pandemia da Covid e permettano di far germogliare i semi da cui si svilupperà l’Europa di domani.  Ovviamente questo ambizioso progetto non è ancora sano e salvo. Alcuni sperano segretamente che questa lunga e difficile strada riduca questo progetto al nulla. Altri si chiedono, giustamente, cosa si intenda per «azione di rilancio» potenzialmente produttiva. La società civile dovrebbe essere felice di queste prospettive contrarie, e sostenerle? Se così facesse finirebbe col dare un posto d’onore a coloro che non vogliono che l’Europa sia la culla del progresso umano e sociale e consentirebbe invece di darla vinta ai sostenitori del movimento nazionalista o del «business as usual»!

Insomma: tutto il mondo si sta traformando per la pandemia e se affari, finanza ed economia invece non cambiano questo costituirà un problema anche per i cittadini attivi nella cura dei beni comuni, come l’ambiente e la salute?

Se non facciamo qualcosa, i perdenti potremmo essere noi: i cittadini europei, gli attori della società civile. Non dobbiamo commettere l’errore di disinteressarci di questo progetto, Next Generation EU, perché è nato su proposta dei tecnocrati della Commissione europea, sostenuti dalla classe politica degli Stati membri.

D’accordo, ma quale obiettivo dobbiamo darci in particolare noi, la società europea che vuole prendersi cura dei beni comuni?

Il nostro obiettivo comune è di renderci capaci di indirizzare parte di questo denaro verso i nostri progetti, le nostre «utopie»,  come le definiscono i nostri avversari.
In primo luogo, accettando di rimetterci ogni tanto in discussione. Puntare al denaro europeo non significa sistematicamente mettere in discussione la nostra autonomia rispetto ai poteri forti. Questo denaro può essere raccolto e redistribuito grazie ai contribuenti europei; vale a dire noi!

Come non dobbiamo pensare e cosa non dobbiamo fare, invece?

La via del «piccolo è bello» potrebbe essere troppo lenta per far fronte alle crescenti sfide climatiche e sociali. Naturalmente, la nozione di campione europeo non corrisponde alla nostra azione di prossimità. Quando «facciamo del bene» e inoltre «lo facciamo bene», il nostro slogan dovrebbe essere «Nessun limite». Non lasciamo mal riposta la modestia, non lasciamoci intimidire. Naturalmente, la visione europea non corrisponde alla nostra azione locale: non si tratta d’invocare la creazione di gigantesche sovrastrutture, minacciate da derive manageriali o burocratiche, ma di sviluppare reti di strutture, il più delle volte di piccole o medie dimensioni, vicine ai cittadini, collegate, liberamente, tra di loro, anche intese oltre i confini di stato e a livello di continente europeo.

Non possiamo che condividere questa suggestione, ma la domanda allora diventa: non è forse improbabile, per il momento, che i fondi europei raggiungano i nostri progetti, che sono troppo piccoli e dispersi ?

Penso che potremmo agire combinando sussidiarietà orizzontale «all’italiana» e sussidiarietà verticale «all’europea», unendo queste due linee di forza in «una diagonale della sussidiarietà».

Il vostro è un approccio molto operativo: come proponete di definire dei piani d’azione?

Dobbiamo poter contare su un ecosistema nazionale ed europeo che trasmetta le nostre richieste e ci aiuti a realizzarle. Mettiamo in atto strutture locali, regionali, nazionali ed europee che trasmettano le nostre rivendicazioni, che facciano in modo che il quadro giuridico, normativo e amministrativo non ci penalizzi a favore dei potenti o, peggio, di coloro che si travestono per fare «common washing». Non abbiamo paura di smascherare coloro che stanno usando «i trucchi dei ricchi» (come Jean-François Draperi spiega nel suo libro «Perché i ricchi adesso vogliono aiutare i poveri a salvare il mondo») per accaparrarsi denaro pubblico. E fare un pezzo di strada con gli attori dell’economia sociale e solidale (ESS) come le cooperative o le mutue purché fedeli ai loro principi costitutivi. Un posto per l’ESS nel piano di rilancio in Francia non è stato ancora conquistato, nonostante gli annunci del governo.

Chiedo allora a Nicole Alix, le cui riflessioni abbiamo già ospitato: varrebbe davvero la pena organizzarsi in questa direzione, visto che i francesi attivi per risolvere problemi di interesse generale, anche in risposta alla pandemia, sono un numero consistente. Ci puoi parlare, ad esempio, della mobilitazione a favore delle piattaforme digitali cooperative ?

Il periodo del confinamento per arginare la diffusione di Covid-19 ha segnato un’intensificazione delle pratiche digitali per tutti. Telelavoro e incontri online, continuità educativa, fornitura di beni di prima necessità, farmaci, discussioni, giochi… sono stati utilizzati strumenti digitali anche per organizzare la solidarietà: trovare alloggio vicino agli ospedali per gli operatori sanitari, garantire la consegna di derrate alimentari dopo la chiusura dei mercati, consentire ai ristoranti di consegnare i pasti, organizzare l’assistenza reciproca all’interno di un quartiere per aiutare i più vulnerabili. La reazione che abbiamo avuto è stata quella di ricorrere agli strumenti che già popolavano la nostra vita quotidiana. I giganti digitali, Amazon, Uber, Facebook, Zoom… Sono così emersi come grandi vincitori dalla crisi. Questi estrattori di valore aumenteranno ulteriormente le loro tendenze monopolistiche e si affermeranno come infrastrutture critiche di solidarietà, nonostante le loro ben note esternalità negative? Devitalizzazione dei centri cittadini, abbandono dei negozi locali per effetto delle piattaforme di consegna a domicilio, esclusione della gentrificazione nelle città vittime di massiccia “airbnbsation“, comparsa di una nuova classe di lavoratori autonomi precari, per non parlare dell’appropriazione e monetizzazione dei dati personali e dell’opacità degli algoritmi.

Cosa possiamo fare adesso che non abbiamo fatto prima ?

Questo strano momento della nostra storia può anche consentire il rafforzamento di dinamiche digitali alternative che fino ad ora hanno avuto difficoltà a convincere dell’utilità della loro differenza: piattaforme digitali cooperative. Si trovano in circuiti alimentari corti (Coopcircuits), logistica di consegna urbana (Coopcycle, in diversi Paesi europei), mutuo soccorso tra cittadini (Pwiic), turismo solidale (Fairbnb, Oiseaux de Pass, Fablabs, ecc). Queste soluzioni aperte, replicabili a livello locale e gestite da e per i loro utenti, sono supportate da attori dei commons. Si basano sulle risorse organizzative dell’economia sociale e solidale e rappresentano un’infrastruttura di cooperazione digitale strettamente legata alle missioni di interesse generale delle comunità.
Il piano di ripresa deve supportare la loro strutturazione contribuendo alla loro visibilità in Europa e a livello internazionale.

Da quanto tempo state lavorando in questa direzione e con quali soggetti ?

Questo obiettivo di cambio di scala è stato sostenuto in Francia dal 2017 dal nostro progetto Plateformes en communs (Piattaforme in comune), con piattaforme in connessione con il movimento globale Platform Cooperativism (Piattaforma cooperativa). Abbiamo lanciato una rete europea che ha redatto un «documento di posizione» l’estate scorsa, affinché le piattaforme fossero incluse nel piano di ripresa. Abbiamo presentato casi alla Commissione europea, che inizia a interrogarci sulla via da seguire. Tutto ciò richiede tempo, risorse e reti. Dobbiamo anche organizzarci a livello nazionale in modo che i fondi possano “atterrare” nei luoghi di coordinamento che creiamo per mettere in comune mezzi e risorse. Un esempio virtuoso sta emergendo nel nord della Francia, la nostra rete europea (con REVES, Dimmons Action Research Group – Barcelone-, Companion -Suède-, Smart -Belgique) vorrebbe duplicarlo.

Per concludere, quali potrebbero essere i prossimi step condivisi, e dove potremmo cercare alleanze?

Perché non fare squadra ancora di più con amici italiani e almeno un alleato dei paesi del Nord o dell’Est Europa, su due binari:

  • Integrare le problematiche digitali nei progetti per la cura dei beni comuni;
  • Avviare un processo simile a favore di partenariati congiunti / autorità locali per affrontare il complesso interdisciplinare della transizione ecologica e solidale.

Ci vediamo online al nostro seminario sul Vertice sull’economia sociale europea a Mannheim il 27 maggio alle ore 15:00!


La version française

Pour un plan de relance de l’Europe qui encourage la subsidiarité horizontale

Les plateformes numériques coopératives françaises veulent faire parvenir les ressources du Plan de Relance européen à ceux qui agissent pour l’intérêt général 

Daniela Ciaffi interview Nicole Alix, présidente de La coop des Communs, et Jean-Louis Bancel, président de Coop.fr et de Cooperatives Europe

Comment est née cette interview? Il y a environ six mois, Gianluca Salvatori a écrit sur Vita un article encourageant le gouvernement italien à s’inspirer de la France: «Le plan français d’utilisation des fonds Next Generation EU part d’un constat: l’économie sociale est l’une des clés de lecture de toute la stratégie de relance. Ce n’est pas un secteur parmi tant d’autres auquel allouer une fraction des ressources disponibles, mais un modèle économique». A partir de là, nous nous sommes demandé si, et comment, même les Français actifs sur les biens communs seraient soutenus économiquement. Nicole Alix, présidente de La Coop des Communs, et Jean-Louis Bancel, président de Coop.fr et Cooperatives Europe, nous aident à comprendre un peu mieux ce qui se passe au-delà des Alpes, nous invitant à former une masse critique auprès des décideurs européens pour que les logiques subsidiaires horizontales puissent également inspirer les politiques de lutte contre la crise pandémique.

Nous nous tournons vers Jean-Louis Bancel pour lui demander : quelles réactions a-t-il pu observer ces derniers mois par rapport au Plan européen et quelle est son interprétation du débat en cours ?

A l’issue de longs et difficiles débats, les chefs d’Etat et de gouvernements ont adopté, le 21 juillet 2020, un ambitieux plan de 750 milliards d’euros pour financer des plans nationaux qui permettent de réparer les effets de la pandémie de covid et permettent de faire germer les pousses qui feront l’Europe de demain. Certes, ce projet ambitieux n’est pas encore arrivé à bon port et, en secret, certains espèrent que ce long et difficultueux chemin n’aboutira pas. D’autres interrogent, à juste titre, sur ce que recouvre «la relance» et se disent qu’elle pourrait bien être productiviste. La société civile devrait-elle se réjouir de ces oppositions, voire les soutenir? Ce serait donner la part belle à ceux qui ne souhaitent pas que l’Europe puisse être une source de progrès humain et social et permettre aux tenants du repli nationaliste ou du «business as usual» de gagner!

En bref: le monde entier se transforme en raison de la pandémie et si affaires, finance et économie ne changent pas, ce sera un problème même pour les citoyens actifs dans la prise en charge des biens communs que l’environnement et la santé?

Si nous ne faisons pas bouger les choses, les perdants pourraient bien être nous: les citoyens européens, les acteurs de la société civile. Ce n’est pas parce que ce projet, next generation EU, est né de la proposition des technocrates de la Commission européenne, soutenus par la classe politique des Etats membres, que nous devons nous en désintéresser.

D’accord, mais quel objectif devrions-nous nous donner en particulier, nous la société européenne qui veut prendre soin des biens communs?

Notre objectif commun est de nous donner la capacité d’orienter une partie de cet argent vers nos projets, nos «utopies» comme les qualifient nos adversaires.

Comment concrétiser cette ambition?

D’abord en acceptant parfois de nous remettre en cause. Aller chercher de l’argent européen ne signifie pas systématiquement remettre en cause notre autonomie par rapport aux pouvoirs dominants. Cet argent peut être levé et réparti grâce aux contribuables européens; c’est-à-dire nous!

Que devrions-nous changer dans nos façons de réfléchir et d’agir?

La voie du «small is beautifull» risque d’être trop lente pour faire face aux défis climatiques et sociaux qui s’accumulent. Quand on «fait du bien» et de surcroît «qu’on le fait bien», notre slogan devrait être «No limit». N’ayons pas de pudeur mal placée, ne nous laissons intimider. Bien sûr, la notion de champion européen ne correspond pas à notre action de proximité: il ne s’agit pas de plaider pour la création de gigantesques superstructures, menacées par la dérive managériale ou bureaucratique, mais de développer des réseaux de structures, le plus souvent petites ou moyennes, proches des citoyens, reliées, librement, entre elles, y compris par-delà les frontières étatiques à l’échelon du continent Europe.

La question devient alors : comment faire que les fonds européens arrivent sur nos projets, considérés jusqu’à présents comme trop petits et disséminés?

Nous pouvons le faire en combinant la subsidiarité horizontale «à l’italienne» et la subsidiarité verticale «à l’européenne», combiner ces deux lignes de force dans «une diagonale de la subsidiarité».

Votre approche se veut très opérationnelle : comment proposez-vous de définir des plans d’actions?

Nous devons pouvoir nous appuyer sur un écosystème national et européen qui relaie nos demandes et nous aide à les réaliser. Mettons en place des structures locales, régionales, nationales et européennes qui relaient nos revendications, qui s’assurent que le cadre légal, réglementaire et administratif ne nous pénalise pas en faveur des puissants ou pire des déguisés qui font du «common washing». N’ayons pas peur de révéler ceux qui utilisent «des ruses de riches» (comme Jean-François Draperi explique dans son livre «Pourquoi les riches veulent maintenant aider les pauvres et sauver le monde») pour capter l’argent public. Et faisons un bout de chemin avec les acteurs de l’Economie sociale et solidaire comme les coopératives ou les mutuelles pour autant qu’elles soient fidèles à leurs principes constitutifs. La place de l’ESS dans le plan de relance en France n’est pas, encore, gagnée, malgré les affichages gouvernementaux.

Je demande alors à Nicole Alix, dont nous avons déjà accueilli les réflexions: cela vaudrait vraiment la peine de s’organiser dans ce sens, étant donné que les Français qui se mobilisent en faveur de l’intérêt général sont nombreux, y compris en réponse à la pandémie. Pouvez-vous nous parler de l’exemple de la mobilisation en faveur des plateformes numériques coopératives?

La période de confinement pour endiguer la propagation de Covid-19 a marqué une intensification des pratiques numériques pour tous. Télétravail et réunions en ligne, continuité pédagogique, livraison de produits de première nécessité, de médicaments, fils de discussion, jeux… les outils numériques ont même servi à organiser la solidarité: trouver un logement proche des hôpitaux pour les soignants, assurer la livraison de denrées alimentaires après la fermeture des marchés, permettre aux restaurants de livrer leurs repas, organiser l’entraide au sein d’un quartier pour venir en aide aux plus fragiles. Les réflexes ont été de recourir aux outils qui peuplaient déjà notre quotidien. Les géants du numérique, Amazon, Uber, Facebook, Zoom… sortent ainsi grands gagnants de la crise. Ces capteurs de valeur vont-ils encore accroître leurs tendances monopolistiques et s’imposer comme des infrastructures critiques de solidarité, malgré leurs externalités négatives pourtant bien connues? Dévitalisation des centres-villes, délaissement des commerces de proximité sous l’effet des plateformes de livraison à domicile, gentrification excluante dans les villes victimes d’une “airbnbsation” massive, émergence d’une nouvelle classe de travailleurs autonomes précaires, sans parler de l’appropriation et monétisation des données personnelles, de l’opacité des algorithmes.

Que pouvons-nous faire maintenant que nous n’avons pas fait auparavant?

Ce moment étrange de notre histoire peut permettre le renforcement de dynamiques numériques alternatives qui avaient jusqu’à présent du mal à convaincre de l’utilité de leur différence : les plateformes numériques coopératives. On les trouve dans les circuits courts alimentaires (Coopcircuits), la logistique de livraison urbaine (Coopcycle, dans plusieurs pays européens), l’entr’aide entre citoyens (Pwiic), tourisme solidaire (Fairbnb, Oiseaux de passage, Fablabs, …). Ces solutions ouvertes, réplicables localement et gérées par et pour leurs usagers, sont portées par des acteurs issus des communs. Elles s’appuient sur les ressources organisationnelles de l’économie sociale et solidaire et représentent une infrastructure numérique de coopération s’articulant étroitement avec les missions d’intérêt général des collectivités. Le plan de relance doit accompagner leur structuration en contribuant à leur visibilité en Europe et à l’international. 

Depuis combien de temps travaillez-vous dans ce sens et avec quels sujets?

Cet objectif de changement d’échelle est porté en France, depuis 2017, par notre projet Plateformes en communs, avec les plateformes, en lien avec le mouvement mondial Platform Cooperativism. Nous avons lancé un réseau européen qui a élaboré un « position paper » l’été dernier, pour qu’une place soit prévue pour les plateformes dans le plan de relance. Nous avons présenté des cas à la Commission européenne, laquelle commence à nous interroger sur la marche à suivre. Tout cela demande du temps, des moyens, des réseaux. Il faut aussi s’organiser au plan national pour que les fonds puissent « atterrir » dans des lieux de coordination que nous créons pour mutualiser les moyens et les ressources. Un exemple vertueux se dessine dans le Nord de la France, notre réseau européen (avec REVES, Dimmons Action Research Group – Barcelone-, Companion -Suède-, Smart -Belgique) voudrait le dupliquer.

Enfin, quelles pourraient être les prochaines étapes communes et où pourrions-nous rechercher des alliances?

Pourquoi ne pas faire encore plus équipe avec les amis italiens et au moins un allié des pays du Nord ou de l’Est de l’Europe, sur deux pistes:
– intégrer les questions numériques dans les projets pour prendre soin des biens communs;
– lancer une démarche similaire en faveur de partenariats communs/collectivités locales pour aborder la complexe interdisciplinarité de la transition écologique et solidaire.

RDV en ligne à notre atelier du Sommet européen de l’économie sociale à Mannheim le 27 mai à 15 h!

Foto di copertina: TheAndrasBarta su Pixabay