La sezione di Ricerche ospita il lavoro di ricerca del dottor Mattia Di Mento, dal titolo “Umanità in crisi: laboratori democratici come risposta all’impellenza di periagoge sociale“. Con la sua tesi di laurea, l’autore vuole offrire uno spaccato della società del Terzo Millennio, con un’umanità sempre più al bivio tra le scelte etiche e quelle più legate alla globalizzazione. Lasciamo all’autore il compito di descrivere la sua dissertazione; mentre per chi volesse approfondire ulteriormente il tema trattato è possibile consultare l’opera di Guido Cusinato, “Periagoge: teoria della singolarità e filosofia come esercizio di trasformazione“.
Educazione e civiltà
Il processo evolutivo, individuale e collettivo, è intessuto col filo del dubbio, lavorato dalle mani della curiosità. Le Scienze dell’Educazione di questo si occupano, dell’incessante interrogarsi umano sui perché e i percome della propria condizione esistenziale e sulla possibilità di poterci fare qualcosa, o quantomeno di poter esprimere con autenticità la propria inquietudine, affinché qualcosa in sé e nel mondo cambi, presumibilmente in meglio. Personalmente, la cinicità del mondo che ha scombussolato i primi venticinque anni della mia esistenza, mi ha interrogato a fondo sui perché e i percome della vita. Difficilmente l’istituzione scolastica riesce a inculcare ai discenti le gesta dell’umanità nel travaglio della storia. Gesta superbamente cooperative, gesta meschinamente divisive, gesta di un’umanità che fin dalla notte dei tempi anela a un posto in questo universo, quale che sia, sempre che ci sia. Da dove veniamo? Dove siamo? Dove stiamo andando?
Ricalibrare il potere: un compito storico
La risposta a queste domande è sempre stata molto varia tra i popoli e dalle loro risposte, dalle loro culture, sono sorte tutte le complesse architetture sociali conosciute. L’anomalia storica rappresentata dalla democrazia è un punto nodale dell’avventura umana: alcune avanguardie hanno scommesso sull’umanità e sulla sua capacità di rigenerare sistemi di potere in cui non fosse più l’appartenenza a una dinastia o l’intermediazione di qualche divinità, bensì la cittadinanza il presupposto per avere una certa quota di sovranità. Rivoluzioni, guerra e pace, hanno così portato, attraverso i secoli, a quel documento solenne di intenti condivisi che è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Dalla questione ambientale alla sindemia globale, passando per la crisi dei valori dell’Occidente e il costante stupro dei diritti fondamentali in gran parte del mondo, approdando infine all’ormai conclamata involuzione democratica, all’apparentemente cronica e insanabile crisi economica, nonché alla scongiurabile morte della pedagogia; all’alba del Terzo Millennio l’intera civiltà umana è chiamata a riflettere su se stessa e agire di conseguenza: è in gioco il suo stesso futuro. Il nostro tempo è segnato dall’avvento della globalizzazione e della dottrina del neoliberismo, nella genesi di una società liquida, retrotopica, che, se stenta a immaginare futuri possibili, non riesce ad affermare politicamente nuovi paradigmi. La crisi, foriera di pericoli, così come di opportunità, momento saliente dell’esperienza educativa, non viene sfruttata nella sua potenziale problematicità; cosicché il cittadino, spesso ignaro o confuso, fatica a sentirsi attore della propria comunità e perciò a responsabilizzarsi.
Una piccola nota pedagogica
L’inquietudine suscitata dalla crisi, lungi dall’essere una patologia da curare, è, insieme al resto delle sfumature che colorano la sfera affettiva, espressione di un ordine del sentire che orienta il soggetto alla cura del proprio desiderio. Questa tribolazione interiore, questa fame di nascere, secondo un processo teleocline (privo cioè di un qualche fine prestabilito, perché enigmatico, sempre imprevedibile), può portare a un vuoto promettente, generare una catarsi e quindi una periagoge, cioè una conversione, un riposizionamento esistenziale nel mondo dell’anima tutta, che porta a far breccia sugli orizzonti del senso comune, fino a inaugurare un nuovo inizio. Trasgredire, deviare, trascendersi ed esprimersi. Gesti non contemplati dai paradigmi pedagogici passati, ma che adesso trovano una valenza educativa secondo l’idea per la quale siamo delle singolarità, cioè il risultato d’un processo creativo d’individuazione che si concretizza in una forma unica e irripetibile, e che nell’esempio (nonché nel contro-esempio) altrui troviamo nutrimento. Contagio e porosità possono così favorire l’inviduazione terziaria, ovverosia quella che riguarda piccole comunità di persone, quando il loro sentire-assieme devìa dal sentire comune. Ponendosi sul piano compartecipativo dell’esemplarità, esse possono irradiare una nuova intenzionalità affettiva collettiva, traducibile in prassi politica di tipo alternativo.
Il ruolo della sussidiarietà
Sebbene nel tempo le Scienze dell’Educazione siano riuscite a partorire nel proprio ambito di ricerca questo tipo di discorso, stentano a essere messe a sistema pratiche civiche che vadano nella direzione indicata, quella cioè di una maieutica del cambio di paradigma. Non è infatti sistemicamente chiesto ai cittadini, nella vita di tutti i giorni, nelle gioie e nei drammi quotidiani, di riunirsi per catalizzare i propri interessi, le proprie idee, i propri desideri, le proprie opinioni, affinché insieme ci si possa far carico di collaborare, ognuno con la propria unicità, a qualcosa di interesse generale. Eppure, la Carta costituzionale offre diversi spunti di riflessione in tal senso: dai primi articoli inerenti i principi fondamentali, pregni di spirito solidale, fino al più specifico articolo 118, in cui trova viva voce il principio di sussidiarietà, infatti, è compito della Repubblica dare modo ai cittadini di vivere la propria autonomia come funzione sociale. L’idea di fondo è quella di ribaltare l’attuale modello perverso di relazioni con la società civile, dove sembra vigere una sussidiarietà alla rovescia, in base alla quale non è lo Stato a sussidiare la libera iniziativa dei cittadini, ma all’opposto i cittadini a dover arrivare dove lo Stato non ce la fa. Si tratta perciò di adottare principi organizzativi totalmente innovativi e propriamente sociali, un processo per il quale la connotazione pedagogica diventa necessaria. Non solo regole del gioco diverse, ma anche diversi modi di vivere le regole. Osservando l’esistente ci si può facilmente accorgere di come sia zoppicante il principio democratico della negoziazione delle regole del gioco. Siamo soddisfatti quando riusciamo a incidere su alcune politiche di quartiere, quando la persona, la lista, il partito che abbiamo votato trova l’elezione, ma non ci aspettiamo neanche lontanamente che la dignità di tutti e di ciascuno diventi un parametro reale, che l’economia torni al servizio della politica, che si esca dal paradigma della scarsità, secondo il quale se c’è bisogno di qualche risposta a bisogni primari (e perché no, secondari) bisogna prima vedere se ci sono i soldi. E tutto ha senso, perché in realtà non ci diciamo di cosa abbiamo bisogno, cosa desideriamo, non è una pratica a cui siamo abituati. Quando lo facciamo siamo sconclusionati, disorganizzati, ostacolati e, nella peggiore delle ipotesi, violenti. Non riusciamo a uscire dalla finestra delle possibilità, perché non guardiamo cosa c’è oltre. Fuori di metafora, l’esercizio della democrazia ha molto a che fare con l’esercizio della cura: stimolazione dell’immaginazione, espressione del proprio sentire, allenamento del pensiero critico, adozione di una riflessività relazionale, inaugurazione di nuovi percorsi di vita; così l’appello al principio di sussidiarietà può rendere queste pratiche non solo legittime, ma indubbiamente necessarie.
Gioia, entusiasmo, gioco, amicizia
L’intento dell’elaborato è offrire al lettore una storia appassionante, per come la vede lo scrittore, affinché ci si animi, si prenda coscienza dell’importanza di ognuno, quale membro di questa curiosa umanità; così confusa, spossata, demoralizzata, ma sempre alla ricerca di qualcosa che, nel tentativo di essere nominato, sfugge a ogni definizione che pretenda di essere esaustiva. Si tratta di un anelito che, se osservato con le lenti giuste, può esser visto come un gioco. Pensiamoci, quanto ci appassioniamo quando giochiamo? Certo, ci può essere il giocatore demotivato, il baro oppure colui che di giochi non ne vuol proprio sapere. Ma trovo stimolante l’idea che se pensassimo alla nostra esistenza come al gioco della cura del desiderio saremmo più portati a trovare soluzioni, alleanze, nuove strade, per uscire migliori dalle nostre crisi, dal crocevia del Terzo Millennio.
Ma quindi, nei fatti, cosa serve?
Prima di tutto, i giocatori, i protagonisti: i cittadini. Coloro i quali attraverseranno le sfide che il gioco porrà loro di fronte. E poi tutto il resto: risorse, spazi, regole, obiettivi, tempi, attività e professionisti. Immagino dei laboratori democratici sempre aperti, degli atelier della cittadinanza attiva, luoghi in cui gli abitanti dei territori possano essere accolti, riconoscere le radici comuni, tessere relazioni attraverso tempi lunghi e porsi delle priorità, riparare i legami e attivare Patti di collaborazione. Ma non solo, occorrerà anche un’urbanistica pronta ad accogliere le istanze che via via emergeranno: piazze, parchi, bacheche, distretti, spazi pubblici di prossimità potranno assurgere a nodi sinergici di una rete di solidarietà, finalmente capace di creare innovazioni sociali.
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