La realtà dell'Italia di oggi ci invita a leggere la nostra Costituzione con la severità e la fedeltà con cui don Lorenzo la leggeva ai suoi ragazzi e ai parrocchiani

Nella reazione di Don Milani contro le ingiustizie che colpiscono i più poveri, c’è già l’intuizione fondamentale del suo impegno sociale e civile: i poveri hanno bisogno di scuola. Non per imparare, “ma solo – come dirà in una lettera del 1955 a Giampaolo Meucci – per dare loro i mezzi tecnici necessari (cioè la lingua)… per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nel loro cuore quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui sono vittime”.
Dunque, una grande opera civile che non ha niente a che fare con l’apostolato e con l’educazione religiosa. Una scuola di una laicità esemplare e modernissima ancora oggi lontana dall’orizzonte di molti cattolici. Una scuola, come dirà in una lettera, da intestare non al Sacro Cuore, ma a Socrate. Una scuola dove – con scandalo di molti – non c’è neppure il crocefisso.

Una lezione che riguarda tutti

I grandi temi del pensiero milaniano non sono stati elaborati nell’ambito del magistero ecclesiastico. Negli anni in cui i confratelli portavano in Processione la Madonna e organizzavano la ricreazione dei giovani parrocchiani, gli interessi di don Lorenzo erano diversi: si occupava delle emergenze del lavoro che attanagliavano i suoi giovani parrocchiani, rivendicando per loro i diritti che la Costituzione solennemente gli riconosce. Chi ricorda la vicenda, riportata in Esperienze pastorali, del giovanissimo Mauro, costretto a lavorare senza diritti presso la ditta di un industriale privo di scrupoli, non faticherà a riconoscere i mali che anche oggi tormentano il mondo del lavoro: il precariato, lo sfruttamento di poveri emigrati, il razzismo nei confronti dei diversi. Contro questi mali si è indirizzata la lezione di don Lorenzo. Ed è una lezione che riguarda tutti: gli industriali, la scuola che respinge gli ultimi, i borghesi con i loro egoismi, i preti che preparano giochi e cinematografo per i giovani, i Vescovi che chiudono gli occhi dinanzi ai fascisti e all’oppressione dei più deboli.

Liberare i poveri dalla soggezione

Bisogna riconoscere che deve avere una fede e una libertà immensa un prete che decide di mettere in un cassetto il crocefisso della sua scuola, come faceva don Lorenzo a Barbiana. Scrive don Lorenzo in una lettera a Giorgio Pecorini del 10 novembre 1959: “Quelli che si danno pensiero di immettere nei loro discorsi a ogni piè sospinto le verità della Fede sono anime che reggono la Fede disperatamente attaccata alla mente… Non potrei vivere nella chiesa neanche un minuto se dovessi vivere in questo atteggiamento difensivo e disperato. Io ci vivo e ci parlo e ci scrivo con la più assoluta libertà di parola, di pensiero e di metodo… Ecco perché la mia scuola è assolutamente aconfessionale come quella di un liberalaccio miscredente”. L’obiettivo di una scuola così non può che essere la conquista di un’autonomia di giudizio e di una coscienza civica per i poveri che li liberi non tanto dal bisogno, ma soprattutto dalla soggezione alla cultura dei signori. Quando i poveri avranno la parola e non saranno più vittime delle mode e del consumismo – affermava don Lorenzo – cambieranno il mondo con la freschezza e la forza della loro cultura nuova.

Un formidabile maestro civile

Dunque, don Milani non é stato solo un prete che ha segnato la storia della Chiesa del nostro tempo, è stato anche un formidabile maestro civile. A cento anni dalla sua nascita forse è utile chiedersi quali sono i testi in cui è meglio racchiusa l’opera di questo straordinario educatore.
Don Lorenzo, com’è noto, non ci ha lasciato testi di approfondimento teorico sulla scuola o sull’educazione e neppure sulla Costituzione. Anzi, rivendicava il valore eminentemente pratico della sua azione e mostrava disprezzo per l’isolamento e l’inutilità degli intellettuali, persi dietro le loro fumose teorie e dimentichi delle sorti dei poveri del mondo. Eppure nei suoi scritti si trovano una forza e un’incisività che raramente si trovano nei testi di teoria dell’educazione o nei testi di educazione civica.
Basterebbero alcune bellissime lettere che raccontano la disuguaglianza e l’emarginazione dei contadini e dei montanari per capire la novità della scuola milaniana. E, naturalmente, si potrebbe attingere a piene mani alla Lettera a una professoressa, per trovare la passione civile che animava l’insegnamento di don Lorenzo. Ma ci sono due testi che, a mio giudizio, meglio degli altri indicano come don Lorenzo ponesse al centro della sua scuola i valori espressi dalla Costituzione repubblicana e come la considerasse il fondamento della formazione dei suoi ragazzi. I due testi sono la Lettera ai cappellani militari e La lettera ai giudici, raccolte nel libro L’obbedienza non è più una virtù.

L’obbedienza non è più una virtù

Il messaggio profondo di questo testo (come del resto accade anche per Lettera a una professoressa) sta nella sua testimonianza ‘politica’, nel senso etimologico della parola. Sono i temi politici, quello della coscienza individuale e del valore della legge, quello della responsabilità del cittadino di fronte alla violenza dello Stato, quello dell’obbedienza agli ordini illegittimi, che sono il lievito del discorso di don Lorenzo.
Per qualche interprete degli scritti milaniani il tema dell’obbedienza e della disobbedienza, soprattutto in chiave di obbedienza alla Chiesa ed alla sua gerarchia, occupa ancora una parte centrale della sua azione e tiene in ombra questi altri temi, tutti politici. Ma oggi, dopo un lungo periodo in cui la Chiesa ha conosciuto molte forme di disobbedienza, il tema dell’obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, che pure ci fu, sia pure nelle forme originali scelte da don Lorenzo, non è il principale.
E’ invece nell’attenzione alla dimensione civile e politica della nostra Costituzione che sta la straordinaria lezione milaniana. La disobbedienza di don Lorenzo non si è mai esercitata all’interno delle strutture ecclesiastiche. Non ha mai voluto prendere in considerazione posizioni che, pure, si manifestavano nel mondo cattolico, di preti che teorizzavano la disobbedienza ai Vescovi e alla Curia per poter essere più fedeli al Vangelo. Negli scritti di don Lorenzo non c’è una parola che non sia di totale adesione alla gerarchia.
Invece, sul terreno politico e civile, la disobbedienza, a San Donato come a Barbiana, è stata considerata il metodo più fecondo per raggiungere gli ideali dello stato democratico e per formare cittadini consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri.

La Costituzione come materia viva

Sotto questo profilo vorrei sottolineare l’aspetto che, secondo il mio giudizio, è il più attuale. Entrambe le lettere, quella ai cappellani militari e quella ai giudici, sono costruite non muovendo dal Vangelo o dalla dottrina della Chiesa, ma muovendo dalla Costituzione repubblicana, assunta come il metro fondamentale per giudicare la storia recente e le posizioni politiche delle varie parti. La realtà dell’Italia di oggi ci invita nuovamente a leggere la nostra Costituzione con la severità e la fedeltà con cui don Lorenzo la leggeva ai suoi ragazzi e ai parrocchiani.
Penso ad esempio alla lungimiranza con cui nei primissimi anni Sessanta veniva letto il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione ‘E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…’ Non è un caso che nella Lettera a una professoressa si dica: per i genitori di Gianni l’articolo suona così: “è compito della signora Spadolini (l’insegnante) rimuovere gli ostacoli, ecc.”. Era evidente per don Lorenzo che rimuovere gli ostacoli è compito non solo dell’insegnante di Gianni, ma di tutti noi, nessuno escluso. Si tratta di una lettura che era il frutto una di tensione ideale e una passione civile che, allora, apparteneva a pochi lettori della Costituzione.
E in una lettera a Mario Lodi scrive: “finché ci sono ostacoli da rimuovere è segno che non a tutti i cittadini è ancora consentito di diventare sovrani”. Dunque la Costituzione per don Milani è stata materia viva, la vera ossatura della sua scuola e del suo insegnamento.

Il primato della coscienza

Ci sono altri due temi di forte valenza costituzionale nell’insegnamento di don Lorenzo, che mi paiono addirittura più attuali: l’educazione alla legalità e il senso della responsabilità individuale fondata sul primato della coscienza.
Per spiegare ai giudici come fosse necessario rispondere al comunicato dei cappellani militari, don Lorenzo scrive: “dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia, come ha libertà di parola e di stampa, come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra” .
Dunque l’impegno civile e politico come dovere ineludibile non solo del cittadino, ma anche del sacerdote. E poi, ancora, parlando della scuola: “… è l’arte delicata di condurre i ragazzi sul filo del rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico”.
Ma la legalità e il rispetto della legge per don Lorenzo non sono la passiva acquiescenza ai dettami della legge: “… in quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte), essi dovranno battersi perché siano cambiate”.

Il senso della legalità e delle istituzioni

Non si potrebbe dire meglio per scolpire la differenza profonda che corre tra l’illegalità e l’obiezione di coscienza. Un conto è violare la legge per ricavarne vantaggi individuali, un conto è violare la legge di cui si ha coscienza che è ingiusta disponendosi a pagare di persona: “… chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri”.
Ora, questa lezione resta di grande attualità in un tempo in cui il senso della legalità e delle istituzioni, per molte ragioni, ha toccato il punto più basso da molti decenni e pochi si interrogano sulla necessità, anche nella vita politica, di seguire la voce della propria coscienza.
Nella scuola di Barbiana il senso della legalità e delle istituzioni e il primato della coscienza percorre tutto l’insegnamento di don Lorenzo, il quale rivendica orgogliosamente la sua educazione rigorosa al rispetto profondo della legge: “… del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli… Nessuno di loro è venuto su anarchico, nessuno è venuto su conformista…”.

Il senso di responsabilità

Ma il punto nel quale la cultura della legalità si salda con il primato della coscienza individuale è il senso della responsabilità, quello che ci permette di distinguere tra leggi buone e leggi cattive. Parlando dei giovani, don Lorenzo scrive: “… io non li credo dei minorati incapaci di distinguere se sia lecito o no bruciare vivo un bambino. Ma dei cittadini sovrani e coscienti”. Dunque bisogna “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani… che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”. Questa profonda convinzione, secondo la quale le democrazie vivono e prosperano solo se ciascuno si fa carico degli interessi generali, è tratta direttamente dal dettato Costituzionale che vuole i cittadini sovrani e capaci di decidere autonomamente del proprio destino e di quello della comunità cui appartengono.
Qui, mi pare, sta la straordinaria attualità del messaggio e anche la spiegazione del fatto che la figura di don Lorenzo ha assunto un rilievo crescente nella società civile e laica, piuttosto che dentro la Chiesa: proprio perché si tratta di un messaggio politico, nell’accezione più vasta del termine, con il quale si chiede a ciascuno di noi di assumere le responsabilità di cittadino sovrano alla luce della Costituzione.

Una scuola per suscitare le coscienze

Tuttavia, il terreno più proprio dell’impegno di don Lorenzo non è stata la politica, come partecipazione ideologica alle vicende dei partiti o dei sindacati. Don Lorenzo si è attestato un po’ prima, in una sorta di terra di nessuno, sulla quale ha messo le fondamenta di una scuola unica e irripetibile. Da quella scuola, Costituzione alla mano, si riservava di valutare e contestare le scelte operate dai partiti, dai giornali, dai sindacati e dalla Chiesa. In quella scuola ha preferito suscitare le coscienze ed educarle alle scelte responsabili, piuttosto che discutere delle scelte politiche contingenti.
Credo che sia già chiaro che l’estrema attualità del pensiero e dell’esempio di don Milani non sta nella novità di ciò che dice e nemmeno nell’originalità della sua pedagogia. Del resto, è lo stesso don Lorenzo che nella lettera ai giudici scrive: “abbiamo preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca di una guerra giusta”. Dunque cose note. Ma affrontate con un taglio e uno spirito che le rende irresistibilmente nuove perché destinate a promuovere il desiderio di crescita civile e di riscatto sociale.

Il manifesto profetico di Barbiana

La grande intuizione di don Lorenzo è stata quella di diffondere criticamente delle verità che, magari confusamente, erano già nella coscienza dei suoi ragazzi e dei suoi lettori. E, soprattutto, quella di farle diventare il fondamento del loro comportamento morale e civile.
Barbiana, come sappiamo, finisce con la morte di don Lorenzo. Ma forse, a guardar bene le cose, finisce con la pubblicazione della Lettera a una professoressa, che è il punto più alto delle intuizioni e delle riflessioni maturate in vent’anni di sacerdozio, di scuola e di esperienze con gli ultimi e non è un caso che gli autori, insieme a don Lorenzo, siano otto ragazzucci di montagna riscattati dalla pedagogia milaniana. Che la Lettera sia il manifesto profetico di Barbiana è difficile dubitare, se si pensa alla cura che vi ha dedicato don Lorenzo quando era già prossimo alla morte. E non è un caso che sia il testo che traduce con parole irresistibili tutta l’attualità dei diritti scolpiti dalla Costituzione a difesa della dignità e della personalità di ogni ragazzo che va a scuola. Una lezione che vale non solo per gli studenti, per tutti i lavoratori, per tutte le donne e, in definitiva, per tutti i cittadini.

Un profeta fra i poveri

Quel che si è scritto fin qui consente di cogliere il senso e il valore dell’eredità spirituale di don Lorenzo.
Concludendo, è difficile non porsi la domanda: chi è stato davvero don Milani? E perché dopo tanto tempo dalla sua morte continua a farci discutere e a inquietarci nel profondo? Intanto è bene chiarire cosa sicuramente don Milani non è stato. Ho già detto in un altro scritto che “non è stato un prete di campagna, magari grandissimo come don Mazzolari; non è stato un prete intellettuale e progressista, magari precursore del Concilio; non è stato una voce della Chiesa del dissenso, con un suo gruppo di discepoli intenti a richiamare la Chiesa a uno spirito più evangelico”. Infine, non è stato neppure un pedagogo, anche se spesso diceva – credo con uno dei suoi straordinari paradossi – che nessuno sapeva far scuola come lui.
È stato invece un prete isolato perfino dalla sua Chiesa, che ha speso la vita al servizio dei più umili facendo la loro stessa vita, capace di sconvolgere la ‘gente perbene’ e il ceto a cui apparteneva per nascita. Il suo insegnamento e il suo modo di fare scuola in una stanzuccia di una canonica arrampicata sui monti del Mugello, ispirandosi alla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, non poteva poi non sconvolgere la scuola classista e i borghesi di ogni risma, cui aveva rivolto la sua critica feroce. Infine è stato un prete capace di mettere la Chiesa e la società di fronte alle loro macroscopiche contraddizioni, guardando nelle pieghe nascoste di cose che a tutti parevano naturali e inevitabili e denunziandone le ingiustizie insopportabili. Questa sua capacità di scoprire i lati più ingiusti e nascosti dei fenomeni religiosi e sociali e di denunziarne spietatamente le miserie, alla luce della Carta Costituzionale, scuote da più di cinquant’anni le coscienze capaci di riflettere ed è un segno di contraddizione per tutti gli uomini di buona volontà.

Beniamino Deidda è stato Procuratore Generale di Firenze e membro del direttivo della Scuola Superiore della Magistratura ed è uno dei fondatori di Magistratura democratica. Ha avuto sempre come faro del suo operato la Costituzione e dopo la morte di Don Milani ha continuato ad insegnare ai ragazzi della scuola di Barbiana, come ci racconta anche il recente film “Barbiana ’65. La lezione di don Lorenzo Milani”.

Immagine di copertina: Sabine Nuffer da Pixabay

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