Oltre la dicotomia pubblico/privato

Il punto di arrivo, come in ogni lavoro di spessore, è, in una proposta interpretativa, l ' indicazione di un nuovo panorama,che offre spunti anche per considerare il significato della sussidiarietà  nella gestione dei beni di interesse generale

La chiave di lettura può essere individuata, infatti, nell’elaborazione e verifica di principi idonei ad inverare la mite coesistenza (secondo l’immagine di Gustavo Zagrebelsky) dei valori antitetici della garanzia della proprietà pubblica e di quella privata, costruita sui limiti che a quest’ultima possono essere imposti, a prescindere dal soggetto che ne sia titolare, in vista degli interessi sociali da soddisfare (ex articolo 42, II comma, Costituzione).

Il punto di arrivo, come in ogni lavoro di spessore, è, in una proposta interpretativa, l’indicazione di un nuovo panorama, ancora da indagare, che nel caso di specie si profila di particolare interesse in quanto offre spunti anche per considerare il significato della sussidiarietà nella gestione dei beni di interesse generale, facendo un cittadino attivo (nella dimensione indicata da Gregorio Arena) anche del privato proprietario.

In una dialettica puntuale con i contributi che hanno segnato lo studio della materia, l’analisi prende le mosse dall’insoddisfazione mostrata da molti autori (F. Cammeo; MS Giannini; S. Cassese; V. Cerulli Irelli; V. Caputi Jamberghi; M. Arsì) verso la razionalità interna dell’impianto codicistico, soprattutto sotto il profilo della omogeneità delle categorie di beni pubblici rispetto allo svolgimento di funzioni analoghe, se non identiche, alle quali non corrisponde omogeneità nei vincoli imposti. L’esempio di scuola è offerto dalle caserme, appartenenti al patrimonio indisponibile, e dalle opere destinate alla difesa nazionale, ascritte al demanio, benché sia la funzione che la consistenza materiale appaiano sostanzialmente omogenea.

Tanto, senza considerare come la stessa presenza del demanio accidentale abbia minato l’idea di fondo che aveva ispirato molte riflessioni prima della stesura del codice del ’42, che spingeva a caratterizzare i beni demaniali come necessariamente appartenenti allo Stato in virtù del loro legame inscindibile con l’esercizio delle sue funzioni. Del resto, sul versante dottrinale, la precisa consapevolezza dell’esistenza di una pluralità di statuti della proprietà pubblica è stata acquisita a partire dagli anni ’6 dello scorso secolo, con l’opera di M.S. Giannini (cfr. pure, sul piano privatistico, le riflessioni di S. Pugliatti).

In tale panorama, viene ulteriormente valorizzata la categoria della “proprietà divisa”, caratterizzata dalla separazione della proprietà del bene rispetto alla regolazione del suo godimento, tanto più alla luce della scomposizione del disegno codicistico operato dall’articolo 42, II comma Costituzione attraverso la previsione della funzione sociale anche della proprietà privata.

Sul piano applicativo, il punto di partenza è dato dall’osservare come la distinzione demanio-patrimonio indisponibile abbia sofferto di significative contaminazioni, mentre il sovrapporsi di leggi speciali, del resto sollecitato dagli stessi rinvii codicistici (cfr. articoli 823, I comma e 828, ultimo comma, cc), ha finito con il sottrarre ulteriormente coerenza e centralità all’originario impianto, tanto da suggerire la necessità di una ricostruzione induttiva, specie a seguito della disciplina sulle privatizzazioni e sulla cartolarizzazione.

Così, guardando al sorgere del vincolo, per alcuni beni è la loro naturale venuta ad esistenza a determinare il carattere della demanialità o dell’appartenenza al patrimonio indisponibile, mentre la possibilità di c.d. sdemanializzazione tacita (seppur ammessa entro limiti sempre più restrittivi da parte della giurisprudenza della Cassazione) ha fatto sorgere l’interrogativo se, in realtà, tanto per l’una che per l’altra categoria non sia necessaria la concreta destinazione al servizio dell’interesse pubblico per determinare l’applicazione della disciplina speciale.

Ancora, sotto il profilo della incommerciabilità, l’autore pone in evidenza la sostanziale equivalenza delle formule di cui agli articoli 823, I comma e 828, ultimo comma, cc., osservando, poi, come l’assimilazione delle discipline possa osservarsi anche in ordine alla sottoponibilità tanto dei beni appartenenti al patrimonio indisponibile quanto di quelli demaniali all’espropriazione per pubblica utilità, essendo comune fondamento logico-giuridico la soddisfazione di un interesse ritenuto superiore rispetto a quello soddisfatto dalla sottoposizione al vincolo proprietario pubblico (in tal senso, il recente testo unico sulle espropriazioni, che sottopone a tali condizioni l’espropriazione dei beni pubblici, anche se i dubbi non sono fugati, essendo la normativa riferita solo al patrimonio indisponibile).

Analoga uniformità di statuto è stata osservata (seppure non senza argomentazioni a volte contrastanti) in ordine al ricorso all’autotutela anche per i beni del patrimonio indisponibile, nonostante il codice la preveda espressamente solo per quelli demaniali; così pure in tema di strumenti di tutela secondo i rimedi civilistici.
In realtà, in tutti i passaggi delle privatizzazioni, ma anche con alcune norme in materia di Agenzia del Demanio (come pure nella disciplina della cartolarizzazione e della valorizzazione dei beni delle regioni e degli enti locali), fuori delle ipotesi in cui si è ritenuto non fosse più persistente il legame fra funzione amministrativa e bene, le diverse discipline si sono affrettate a sottolineare che la privatizzazione del profilo proprietario – formale o sostanziale – avrebbe dovuto lasciare impregiudicato il regime giuridico del bene (separata analisi richiederebbe indagare se ciò, poi, sia sempre avvenuto realmente e correttamente).
Pur mancando una normativa coordinata, l’autore individua pertanto un motivo comune nel fatto che il nesso strumentale bene-funzione è legato all’effettività della destinazione, con effetti dirompenti rispetto al tradizionale assetto.

Analogo risultato è osservato nell’ambito del governo delle reti, che anzi risulta segnato dall’attenzione alla garanzia della funzione, e non già alla titolarità soggettiva dei beni (privatizzata).

L’autore ne induce una scissione fra il momento proprietario e la persistenza del vincolo diretto a garantire la funzione, con finale frammentazione del quadro codicistico anche sotto tale aspetto che, più degli altri, aveva resistito alla dinamica dell’ordinamento.

Il momento ricostruttivo si esprime, quindi, nel riconoscere come il processo normativo segni una sorta di “patrimonializzazione” del regime demaniale, nel senso che tutti i beni sottoposti a vincolo (demaniali e patrimoniali indisponibili) diventano oggetto di possibile circolazione regolata, diretta a garantire la non sottrazione alla loro destinazione (come vuole l’art. 828 c.c.) attraverso vincoli conformativi, piuttosto che attraverso l’assoluta inalienabilità.

Non manca una serrata analisi di come, benché la normativa di settore richiami la persistenza della destinazione dei beni alla funzione, il regime giuridico ne risulti trasformato, con riguardo alla nascita e cessazione del vincolo, alla circolazione dei beni ed alla loro tutela. Nella dinamica concreta, quindi, accettando la ricostruzione proposta, si intersecano momenti proprietari, di gestione e di tutela in cui gli attori sono a volte pubblici, a volte privati, sempre in un’ottica di rafforzamento della garanzia della funzione dei beni.

D’altra parte, c’è da interrogarsi se, imposto un vincolo di identico contenuto al bene a prescindere dalla titolarità, il cambiamento dell’assetto proprietario non sia del tutto indifferente: da stessi principi derivano conseguenze differenti, se si cambia l’orizzonte applicativo (facendo tesoro della lezione di Roberto Saccco in altro contesto).

E’ vero, infatti, che rimane quanto meno immutato l’ambito della tutela davanti al giudice amministrativo ed al giudice ordinario; è, altresì, vero che l’alternatività fra autotutela e tutela civilistica, voluta dalla Cassazione, nel nuovo assetto dei rapporti viene meno, se si vuole valorizzare l’autonomia dei diritti di difesa della Pa regolatrice, titolare della funzione, e privato proprietario.

Tuttavia, la proprietà, nell’ambito della circolazione e gestione regolata dei beni, resta limitata dal vincolo previsto al momento dell’acquisto del proprio titolo e, nelle fasi successive, agisce nell’ambito dell’autonomia privata, per quanto indirizzata a fini sociali, che è cosa ben diversa dalla discrezionalità della Pa, che impone sempre la comparazione imparziale di diversi interessi e trova nel giudizio amministrativo una verifica della conformità del potere alla funzione, secondo legge.

Inoltre, nel quadro in evoluzione si può perdere il primato dell’indirizzo politico sull’amministrazione e, quindi, potrebbe risultare reciso il legame fra organi amministrativi e circuito democratico per tutte le decisioni che rientrano nelle facoltà del privato: rischia di venire meno il controllo offerto dall’ambito della responsabilità politica, oltre ad aggiungersi, probabilmente, un altro tassello alla delegittimazione delle istituzioni, in quanto si sottrae loro un ulteriore ambito di intervento.

Il disegno di uno stato “leggero”, quindi, deve essere perseguito con attenzione, bilanciando i principi dell’efficienza e dell’economicità, di recente alla ribalta (come ha osservato più volte Marco Cammelli) con altri principi, secondo il disegno di mite coesistenza dei valori disegnato dalla Costituzione.

Del resto, l’autore è sensibile a tale problematica, richiamando, come principio guida, quello, di guicciardiana memoria, della inerenza essenziale della proprietà pubblica del bene ai fini della garanzia della funzione. Lo sforzo dovrà, quindi, essere quello di ricercare indicazioni nella Carta costituzionale, considerato che l’obiettivo è trovare limiti a quella che Mortati ha definito discrezionalità legislativa e, d’altra parte, bilanciare l’esercizio di nuove libertà dei privati rispetto alle compressioni che ne possono conseguire su quelle di altri soggetti, così come Carlo Marzuoli ha osservato in un recente saggio.

Un buon punto di partenza potrebbe essere il riferimento ai limiti che la Costituzione pone all’attuazione della sussidiarietà orizzontale, come momento di svolgimento da parte dei privati e delle formazioni sociali delle attività di interesse generale attinenti i beni destinati a funzioni pubbliche.

Ma questo, come in ogni riflessione sulle dinamiche in atto, non può che essere uno spunto per ulteriori indagini.