C’è stato un tempo in cui i parlamentari europei non erano eletti direttamente dal corpo elettorale dei rispettivi paesi. Erano invece scelti dai parlamenti nazionali, con il risultato che al Parlamento europeo venivano mandati i politici di secondo piano, quelli trombati nelle elezioni nazionali, perché nessuno voleva allontanarsi dai luoghi dove si esercitava il vero potere.
Contro questo stato di cose, che umiliava le istituzioni europee e abbassava il livello qualitativo della classe politica dell’Europa unita, si mobilitarono le opinioni pubbliche dei paesi fondatori. Anche chi scrive partecipò a metà degli anni Sessanta alle iniziative del Movimento Federalista Europeo finalizzate ad ottenere l’elezione diretta dei parlamentari europei. Sembrava un’utopia, allora, riuscire a superare le resistenze delle classi politiche nazionali, che non vedevano di buon occhio il consolidamento delle istituzioni sovranazionali, tanto più attraverso la legittimazione derivante dal voto di milioni di cittadini europei.
La routine della democrazia
Eppure nel giugno 1979 gli elettori di tutti i paesi facenti parte della Comunità europea andarono a votare per la prima volta contemporaneamente per eleggere i propri rappresentanti nel primo vero parlamento dell’Europa unita. Quel giorno, per chi si era battuto per quella che considerava un’importante conquista di democrazia, fu un’emozione andare a votare.
Ebbene, sono passati da allora relativamente pochi anni e anche questo nuovo spazio di partecipazione è stato inghiottito da quel subdolo nemico delle libertà, il grigiore della routine della democrazia, che spesso precede l’altro nemico, quello più noto e più visibile, il totalitarismo.
E così fra pochi giorni senza nessun entusiasmo, stancamente, milioni di cittadini in tutti i paesi dell’Unione voteranno i propri rappresentanti al Parlamento europeo. Quello che dovrebbe essere un momento importante per lo sviluppo democratico di un intero continente viene invece vissuto come un altro stanco rituale di un sistema rappresentativo sempre meno partecipato e sempre meno credibile, non solo a livello europeo ma anche a livello nazionale.
Disincanto e scetticismo
La responsabilità è tutta delle classi dirigenti politiche ed amministrative dell’Unione, che non hanno saputo né voluto in questi anni legittimare le istituzioni comunitarie, rendendole un pò meno distanti e burocratiche agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche.
Salvo poi naturalmente stupirsi se in Francia, uno dei paesi fondatori, gli elettori respingono con referendum il progetto della cosiddetta “Costituzione” europea. Che altro avrebbero dovuto fare, dal momento che nessuno, in Francia come altrove, si è dato la minima pena di informare e coinvolgere i cittadini nella redazione di quel documento?
Anche in quei paesi, come l’Italia, dove l’idea stessa dell’Europa unita ha avuto per decenni un’immagine positiva ormai sembra prevalere il disincanto, un’accettazione passiva piuttosto che non l’adesione esplicita ad un progetto per un futuro comune. Ed anche a livello di élites di governo in molti casi prevale lo scetticismo, sia pure per motivi diversi a seconda dei paesi e dei diversi orientamenti politici.
Nuovi traguardi cercansi
D’altronde, dov’è il progetto in cui credere e per cui mobilitarsi?
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso gli obiettivi erano, per esempio, l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune o, appunto, l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Negli anni Novanta il rispetto dei parametri di Maastricht e successivamente l’adesione alla moneta unica. Ma adesso, ora che molti degli obiettivi del processo di integrazione economica e monetaria sono stati raggiunti, quali altri traguardi possono essere indicati ai popoli europei, che non siano soltanto l’aumento indefinito del benessere economico?
Eppure, se al posto degli attuali politici senza visione, condizionati dalle paure e dagli umori di elettori incattiviti, ci fossero uomini capaci come Spinelli di guardare oltre l’esistente, si accorgerebbero che l’Europa ha un patrimonio di valori il cui sviluppo, a beneficio di tutti gli uomini del pianeta, potrebbe diventare il grande progetto intorno a cui mobilitare la parte migliore della società europea.
I diritti dell’uomo
Il principio democratico, innanzitutto. Nell’Unione non c’è posto per stati che non rispettino i diritti dell’uomo: fra l’altro, lo testimoniano a posteriori l’adesione della Spagna appena uscita dal franchismo e quella dei paesi dell’Europa orientale dopo la caduta del Muro, così come le perplessità che suscita (non solo per questo motivo, per la verità) la richiesta di adesione della Turchia.
Una distinta identità europea
In secondo luogo, un altro valore tipicamente europeo è la concezione della cittadinanza intesa come condizione in cui tutti i diritti fondamentali, sia quelli di libertà sia quelli sociali, sono su un piano di assoluta parità ed indivisibilità. Affermando questa concezione della cittadinanza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione contribuisce in maniera determinante a delineare un’identità politica europea distinta da quella del resto del mondo occidentale. Così come, nello stesso senso, fondamentale è il divieto della pena di morte (art. 2 della Carta).
Accettare la diversità
Ma il valore principale, quello che meglio potrebbe contribuire a dare un’anima allo sviluppo del processo di integrazione, sta proprio in ciò che a noi europei ormai sembra scontato, ma che scontato non è affatto, anzi, è sempre a rischio: cioè la coesistenza delle diversità.
“L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa, linguistica” (art. 22 della Carta). Detto in altri termini, l’Unione è uno spazio pubblico improntato ad una concezione laica della vita che significa innanzitutto accettazione della diversità (che è una cosa diversa e ulteriore rispetto alla semplice tolleranza) nella convinzione che la varietà è una risorsa. Lo dimostra, fra i tanti altri esempi, quello straordinario programma chiamato Erasmus, grazie al quale milioni di giovani europei hanno imparato a conoscersi e ad apprezzarsi.
Questo vuol dire che chiunque guardi oggi all’Unione europea dal resto del mondo vede popoli che dopo essersi scannati reciprocamente per secoli in nome di religioni, ideologie, nazionalismi e culture diverse hanno imparato a vivere insieme nel rispetto e nell’accettazione reciproca.
Mai più guerre fra noi
A noi oggi sembra normale. Ma uno dei grandi successi dell’Europa unita sta proprio nel fatto che tecnicamente e giuridicamente oggi la guerra fra i paesi europei non è più possibile. Certo, purtroppo continuano ad esserci guerre fuori dalla comunità europea, anche vicinissimo a noi, come è stato nei Balcani. Ma il fatto straordinario è che l’Europa non è più il luogo dove iniziano le guerre, perché gli stati europei hanno rinunciato all’uso della forza nei rapporti reciproci, così come hanno rinunciato ad un altro attributo fondamentale dello stato moderno, battere moneta.
Questa è l’Europa che bisogna far crescere e che può proporsi al resto del mondo come modello, non certo l’Europa delle quote, delle lobbies, delle burocrazie comunitarie, delle chiusure egoistiche nei confronti dei produttori del sud del mondo. Ma ci sono oggi, in Italia e altrove, politici capaci di ridare un’anima all’Europa?