Vi ricordate la cosiddetta rivoluzione degli ombrelli ad Hong Kong? Il prossimo settembre ricorreranno i dieci anni da quella pacifica protesta, durata un po’ più di due mesi. Curioso, tra parentesi, guardare la storia recente da un lato all’altro del pianeta e trovare tracce di fenomeni comuni: anche per noi il 2014 fu l’inizio di una silenziosa rivoluzione sussidiaria. Nessuno ci lanciava lacrimogeni, non siamo una ex colonia, la posta in gioco non era il suffragio universale, il punto non era lottare contro una riforma elettorale per elezioni locali e potremmo elencare mille altre differenze. Ma ad Hong Kong come a Bologna e in tante altre città del mondo sempre più persone iniziavano a chiedersi: “la democrazia locale salverà la democrazia?”.
18 marzo 2014: gli studenti occupano il parlamento di Taiwan
L’Umbrella Movement di Hong Kong si ispirava al Movimento dei Girasoli, che sei mesi prima, nella vicina Taiwan, aveva occupato a Taipei il parlamento nazionale. Un estratto della ricostruzione delle diverse fasi che hanno preceduto e preparato questa incredibile azione, tratto da “L’isola sospesa” di Stefano Pelaggi. “Nella mattinata del 18 marzo poco meno di un migliaio di manifestanti si riunirono di fronte al parlamento: intorno alle nove, un gruppo composto da poche decine di persone tentò di forzare l’ingresso principale del complesso, e mentre la polizia interveniva per bloccarne il tentativo altri due gruppi superarono i cancelli sul retro e riuscirono a raggiungere in pochi minuti la sala principale dello Yuan legislativo, ossia il parlamento unicamerale taiwanese. Le forze dell’ordine tentarono diverse volte di riprendere il controllo dell’edificio durante la mattina, ma gli occupanti riuscirono a resistere. In poche ore centinaia e poi migliaia di attivisti circondarono il parlamento, mentre le diverse anime di quello che verrà chiamato il Movimento dei Girasoli pianificavano ogni aspetto organizzativo […]”.
Il movimento dei Girasoli raccontato da Ian Rowen
Lo scorso 3 aprile, primo giorno delle violente scosse di terremoto a Taiwan, si concludeva in modo indimenticabile il mio breve viaggio sull’isola, durante il quale sono stata invitata a raccontare la via italiana alla partecipazione, attraverso l’amministrazione condivisa dei beni comuni, presso l’Università Normale di Taipei. Prima del mio intervento ha fatto un’appassionata e coinvolgente lezione il professore che mi aveva invitata, Ian Rowen, che aveva vissuto l’esperienza in prima persona. A un’accurata selezione di concetti si accompagnava una galleria fotografica caratterizzata dalla passione per alcuni dettagli, che a loro volta mi parlavano di uno stile orientale a cui, nella mia percezione, faceva eco il modo di fare di molte persone che si prendono cura dei beni comuni in occidente. Potrei sintetizzare così: a una resistenza convinta non corrispondeva un’attitudine muscolare da parte degli e delle occupanti da un lato, né della polizia dall’altro. “Durante quei giorni ho fatto la seduta di agopuntura più bella della mia vita” ci ha confessato Ian Rowen mentre scorrevano immagini che parlavano della cura in senso più stretto e materiale – dall’organizzazione dell’assistenza sanitaria, alle donazioni di cibo e coperte, alla pulizia e raccolta differenziata – alla cura in senso più lato e immateriale – ad esempio la cura di una comunicazione creativa (loghi e disegni) e ironica (i politici come bersaglio numero uno) oltre che continuo canale di scambio di informazioni tra manifestanti internamente e con i media all’esterno. A questo proposito Pelaggi, sopra citato, scrive: “Gli attivisti con più esperienza si occuparono di stabilire una linea diretta con i mezzi di comunicazione nazionali e internazionali. Così, una manifestazione di poche centinaia di persone si trasformò nell’occupazione del luogo simbolo del potere a Taiwan. L’impressionante macchina organizzativa e la costante azione di comunicazione coinvolsero vaste fasce della popolazione taiwanese, accendendo i riflettori sui pericoli degli investimenti cinesi nell’isola”.
Il concetto di autodeterminazione nazionale
Sì, perché se si dovessero usare due sole parole per descrivere le ragioni di chi occupò e si unì ai manifestanti (e di tutto quel che seguì a livello politico e partitico, cambiando radicalmente la storia dei movimenti dal basso di Taiwan e di Hong Kong) dovremmo usare queste: autodeterminazione nazionale. L’enciclopedia online Treccani, peraltro, per descrivere la voce autodeterminazione inizia da questa accezione della parola nel diritto internazionale, distinguendola in “autodeterminazione interna” quando i popoli hanno il diritto di scegliere il proprio sistema di governo ed “esterna” quando sono liberi da altre dominazioni e colonizzazioni. La storia di questo principio dalla Rivoluzione francese ad oggi è lunga e articolata, ma ci piace citare almeno due documenti storici che lo affermano. La prima, tristemente attualissima, è “la Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970, che raccomanda agli Stati membri dell’ONU di astenersi da azioni di forza volte a contrastare la realizzazione del principio di autodeterminazione e riconosce ai popoli il diritto di resistere, anche con il sostegno di altri Stati e delle Nazioni Unite, ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione.” I secondi sono i “Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali” (1966), in cui molti sono i riferimenti alla questione di genere.
Autodeterminarci per “avere il potere di” / “la libertà di” / “la responsabilità di”
Due sono state le reazioni alla mia lezione sull’amministrazione condivisa dei beni comuni a Taipei. Studentesse e studenti molto interessati ad esempi di patti di collaborazione nella pratica da una parte. Dall’altra una reazione di estremo interesse di Ian Rowen per il principio di sussidiarietà orizzontale stesso. In effetti mettere a comune determinatore il verbo autoderminarsi era stata una (sua) buona idea, perché tanto nel caso italiano che in quello taiwanese le persone volevano e vogliono avere potere, libertà, responsabilità. Il determinare le proprie regole è peraltro un tema ricorrente nella letteratura sui beni comuni: dalle domande che Hardin si poneva di fronte a scenari mondiali tragici futuri, alle risposte in chiave di autogoverno con cui la Ostrom in qualche modo gli rispondeva. Dal punto di vista filosofico, sempre secondo la Treccani, l’autodeterminazione è l’opposto di “[…] determinismo, che assume la dipendenza del volere dell’uomo da cause non in suo potere. L’autodeterminazione è l’espressione della libertà positiva dell’uomo e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione”. Per quanto il richiamo all’autonoma iniziativa di cittadini singoli e associati contenuto nell’articolo 118 ultimo comma della Costituzione sia evidente, penso che elaborare insieme in futuro il principio di autodeterminazione e quello di sussidiarietà potrebbe arricchire il dibattito sia occidentale che orientale.
Donne che si autodeterminano
L’AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) parla infatti di diritto all’autodeterminazione: “Tale diritto è chiaramente definito come uno dei diritti umani delle donne dal par. 96 della Piattaforma di Pechino, che afferma che i diritti umani delle donne comprendono il diritto ad avere il controllo e decidere liberamente e responsabilmente sulle questioni relative alla propria sessualità, compresa la salute sessuale e riproduttiva, libere da coercizione, discriminazione e violenza […].”
Il Comitato diritti umani afferma: “in tutto il mondo la disuguaglianza nell’esercizio dei diritti da parte delle donne è profondamente radicata nella tradizione, nella storia e nella cultura, compresi gli atteggiamenti di tipo religioso. […] Gli stati parte devono garantire che gli atteggiamenti tradizionali, storici, religiosi, o culturali, non vengano utilizzati per giustificare violazioni del diritto delle donne all’eguaglianza di fronte alla legge ed all’esercizio paritario di tutti i diritti garantiti dal Patto “.
Il Comitato fornisce numerosi esempi specificamente riferiti alla libertà delle donne di decidere della propria vita, in materia di matrimonio, studio, lavoro, scelta dell’abbigliamento, cultura, ecc.
Movimenti guidati da studentesse e studenti
Cosa ha colpito, reciprocamente, me, del Movimento dei Girasoli di Taiwan? Il fatto che l’occupazione del Parlamento sia stata guidata dagli studenti. In un articolo pubblicato su La Stampa di qualche giorno fa, il 13 maggio, intitolato “Noi, i nostri figli e le proteste in piazza” Fabrizia Giuliani ha scritto: “Cominciamo dal rapporto tra forza e responsabilità. Quali criteri ne guidano l’uso in una democrazia? Li ha ricordati Mattarella, nulla da aggiungere: i manganelli con i giovani esprimono un fallimento. I cortei che si concludono con i ragazzi per terra, le magliette sporche, le ambulanze cariche sono una sconfitta. La forza richiede coscienza di sé, misura, limite. Se la perde si rovescia nel suo opoosto, diventa violenza. Il confine è chiaro, se non lo si trova la conseguenza va oltre l’ordine pubblico, tocca la fiducia nello Stato”. Per esistere ed evolvere l’amministrazione condivisa dei beni comuni ha bisogno che questa fiducia non venga indebolita, ma rafforzata.
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Immagine di copertina: Conner Baker su Unsplash