Labsus con la sua azione cerca di promuovere una società in cui i cittadini siano attivi, responsabili e solidali e si prendano cura dei beni comuni, quei beni materiali ed immateriali il cui arricchimento arricchisce tutti ed il cui impoverimento impoverisce tutti.
In questa prospettiva, abbiamo sempre sostenuto che i cittadini possono prendersi cura anche di quel particolarissimo bene comune immateriale che si chiama “sicurezza”. Tanto è vero che già nel novembre 26 organizzammo un seminario interno di approfondimento su “Sussidiarietà e sicurezza collettiva”, per cercare di capire come fosse possibile un ruolo attivo dei cittadini in un settore così tipicamente “pubblico” (nel senso di statale) come quello della sicurezza.
Da allora abbiamo continuato a seguire con attenzione le vicende riguardanti questo settore. Fra l’altro, il nostro Osservatorio sui media di Bologna ha schedato parecchi casi significativi di attivismo civico riguardanti genericamente la sicurezza, molto diversi fra loro quanto ad obiettivi, organizzazione e problematiche affrontate. E nel marzo 29 un articolo di Filippo Ozzola ha fatto il punto su queste esperienze, tracciandone un’utilissima mappa divisa per tipologie di intervento e soggetti coinvolti.
Il pensiero unico della ronda
Abbiamo quindi seguito con molto interesse ma anche con un po’ di preoccupazione la bufera mediatica scatenatasi negli ultimi mesi intorno al tema delle cosiddette “ronde”. Perché da un lato, sulla base delle esperienze che censivamo, avevamo la certezza che i cittadini, indipendentemente dalle iniziative del governo, già si prendevano cura in vari modi del bene comune “sicurezza” (qualsiasi cosa si intenda con questo termine, che come vedremo ha molte sfaccettature). Dall’altro però non ci convinceva affatto il modo con cui il governo riconosceva sì ai cittadini la possibilità di avere un ruolo attivo in questo campo (applicando così, più o meno consapevolmente, il principio di sussidiarietà), ma attribuendo valore paradigmatico e generale ad una sola, particolare esperienza, quella delle cosiddette “ronde” istituite dalla Lega Nord.
Come osserva un esperto in materia, ronde “è un termine militare, e se lo vogliamo usare in ambito civile non ci siamo proprio. Usare la parola ronda significa livellare ogni aspetto della questione. Sarà più faticoso, ma io preferisco parlare di servizi di sicurezza sussidiari, che possono variare di città in città. Ogni area ha problemi diversi… Il pensiero unico della ronda invece rischia di imporsi su tutto, uniformando situazioni diverse e delicate. Se vogliamo parlare di principi ispiratori, dico che queste iniziative dovrebbero avvicinarsi al modello anglosassone del community policing. In fondo è una forma di libertà, la partecipazione di ogni cittadino alle sorti della propria comunità. Mi piace l’idea del servizio sociale. Della comunità, non dell’individuo, che contribuisce al proprio corretto funzionamento. Se riusciamo a introdurre questo indirizzo, allora faremo davvero un passo avanti. E questo gran parlare delle ronde, o presunte tali, non sarà stato del tutto inutile”.
Sagge parole. D’altro canto l’autore è uno che se ne intende, il generale dei Carabinieri Mario Mori, ex capo del Sisde e dei Ros, ora prefetto, responsabile della sicurezza per il comune di Roma, in un’intervista al Corriere della sera del 12 marzo 29.
L’ordine pubblico non è un bene comune
Il problema principale di quello che il generale Mori definisce il “pensiero unico delle ronde”, come notammo già nel marzo scorso con un editoriale intitolato “Il ‘dis’onore della cronaca”, sta “nell’impostazione culturale delle ronde che il Governo ha manipolato, corrompendola: le ronde dei cittadini per l’ordine pubblico. Il bene comune non può essere l’ordine pubblico”.
Così come la sanità pubblica garantisce solo uno degli aspetti del bene comune salute, l’istruzione pubblica solo uno degli aspetti del bene comune istruzione, la radiotelevisione pubblica solo uno degli aspetti del bene comune informazione e così via, anche l’ordine pubblico garantisce solo uno degli aspetti del bene comune sicurezza.
Quelli appena elencati sono i servizi con cui, in una determinata fase storica, le istituzioni perseguono gli interessi pubblici individuati dal legislatore o, detto in termini “labsusiani”, si “prendono cura” dei beni comuni. Ma ovviamente, data la limitatezza delle risorse disponibili, i poteri pubblici non possono con le loro strutture ed i loro mezzi soddisfare tutte le esigenze connesse con la cura dei beni comuni.
Finora questo era un problema irrisolvibile. Oggi, grazie al principio di sussidiarietà, i cittadini possono essere non soltanto utenti destinatari dei servizi con cui i poteri pubblici si “prendono cura” dei beni comuni, ma anche soggetti attivi, alleati dei poteri pubblici nell’attività di produzione, manutenzione e sviluppo di quei medesimi beni comuni. Ovviamente tutto questo i cittadini attivi lo fanno con i propri mezzi e mettendo a frutto le proprie capacità. E altrettanto ovviamente lo fanno in funzione “sussidiaria”, ossia di ausilio dei soggetti pubblici, perché la responsabilità principale per la cura dei beni comuni rimane comunque sempre in capo alle istituzioni.
La sicurezza, fra preoccupazione e tranquillità
Secondo l’art. 118, ultimo comma della Costituzione i cittadini possono avere un ruolo attivo nella cura di beni comuni come la salute, l’istruzione, l’informazione, etc.. Possono averlo quindi anche nella cura del bene comune sicurezza. Non invece nel mantenimento dell’ordine pubblico, che non è un bene comune bensì un servizio che deve essere fornito dai soggetti pubblici, esattamente nello stesso modo in cui ad essi spetta la gestione del servizio sanitario, di quello dell’istruzione, dei trasporti, etc..
A questo punto, naturalmente, si tratta di capire cosa intendiamo per sicurezza. Dal punto di vista etimologico “sicuro” viene dal latino securus, composto di se disgiuntivo e cura, che vuol dire “sollecitudine”. Dunque letteralmente “sicuro” è colui che è “senza sollecitudine”, senza timore, tranquillo, così come sicura è una cosa che non presenta pericoli, una cosa senza difficoltà. “Sicurezza” di conseguenza è lo stato d’animo di colui che si sente sicuro.
Garantire la sicurezza di una comunità significa quindi adottare misure tali per cui tale comunità può permanere in uno stato d’animo di tranquillità, di assenza di timori e, permanendo in tale stato d’animo, può attendere alle proprie attività serenamente. In questa prospettiva il concetto di sicurezza è un concetto tutto in positivo (anche per questo non si può identificare solo con il mantenimento dell’ordine pubblico) che trasmette una sensazione di pienezza, di tranquillità.
Così come la pace non è mera assenza di guerra, così anche la sicurezza non è mera assenza di pericoli, bensì è una condizione generale di tranquillità nella vita quotidiana, grazie alla quale ciascuno può realizzare il proprio progetto di vita e sviluppare le proprie capacità. Sotto questo profilo dunque la sicurezza si può considerare come un bene comune “strumentale” al pieno sviluppo ed al bene-essere delle persone.
Pace e sicurezza sono connesse, anche perché se non c’è pace fra le nazioni certamente non ci può essere sicurezza nella vita quotidiana. In un certo senso, si potrebbe dire che la sicurezza è la pace declinata nella vita di tutti i giorni.
Tuttavia se è vero che essere sicuri o, meglio, sentirsi sicuri è essenziale per poter vivere civilmente e sviluppare le proprie potenzialità, è anche vero che la sicurezza non è una situazione che, una volta raggiunta, possa essere data per acquisita una volta per tutte. La sicurezza, come la libertà, non può mai essere data per scontata. Come vediamo in questi tempi nel nostro Paese, troppi sono i fattori che possono rapidamente tramutare uno stato d’animo di sicurezza nel suo opposto, l’insicurezza e la paura.
I diversi profili della sicurezza
In questo senso la sicurezza è un bene comune come l’aria, l’acqua, l’ambiente che hanno bisogno di essere costantemente curati, mantenuti e protetti da tutti, non solo dai soggetti pubblici a ciò preposti. Manifestandosi attraverso uno stato d’animo, anche la sicurezza o meglio la sua percezione è fragile, come l’ecosistema. E come questo ultimo ha bisogno che tutti se ne prendano cura, sia nei comportamenti quotidiani sia, eventualmente, con comportamenti straordinari, nel senso letterale del termine extra-ordinem, “fuori dall’ordine”.
Così come basta una piccola quantità di olio motore usato per inquinare un intero lago, allo stesso modo bastano alcune rapine in case isolate per instillare la paura in tutti gli abitanti della zona; alcune truffe informatiche con le carte di credito, per scoraggiare gli acquisti su internet; alcune truffe finanziarie, per spaventare gli investitori. E lo stesso vale per la sicurezza sui luoghi di lavoro e sulle strade, per quella riguardante le frodi alimentari, e così via.
In una società complessa come la nostra ci sono tanti possibili profili della sicurezza che, tutti insieme, danno vita alla percezione complessiva della sicurezza di una comunità, come l’immagine che risulta da un mosaico composto da tante tessere.
Le cosiddette “ronde” riguardano solo una di queste tessere, quella della sicurezza urbana, l’unico profilo (almeno finora) della sicurezza che l’ordinamento, con il recente decreto del Ministro dell’interno, ritiene possa essere tutelato anche dai cittadini.
In realtà anche se non ci fosse stato l’intervento normativo del governo i cittadini sarebbero stati comunque legittimati, applicando il principio di sussidiarietà, ad attivarsi per prendersi cura del bene comune sicurezza nel proprio territorio. Perché allora l’introduzione di una disciplina normativa dell’attivismo civico nel settore della sicurezza urbana ha suscitato tante e così violente reazioni negative?
No all’ideologia delle ronde
Probabilmente i problemi che sono insorti nei mesi scorsi con riferimento alle cosiddette “ronde” sono derivati da due ordini di questioni.
In primo luogo, vi è stata la politicizzazione che sia la Lega, sia altre formazioni, hanno dato a quelle che nella prospettiva dell’art. 118 ultimo comma della Costituzione sono letteralmente “autonome iniziative di cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale” che, come tali, dovrebbero anzi essere “favorite” dai soggetti pubblici.
La scarsa conoscenza del principio di sussidiarietà e degli effetti che esso produce nei rapporti fra amministrazioni e cittadini, combinata con l’appropriazione di questa particolare forma di intervento civico da parte di una forza politica, hanno prodotto una drastica reazione di rifiuto da parte di tutti coloro che non riescono nemmeno a concepire un ruolo attivo dei cittadini nella cura dei beni comuni, tanto più se tale intervento avviene in un settore da sempre considerato prerogativa dello Stato.
Il secondo motivo della reazione negativa sta infatti nel particolare tipo di bene comune oggetto dell’intervento dei cittadini attivi. Sia l’uso del termine del tutto improprio di “ronde”, sia la confusione più o meno inconsapevole fra “ordine pubblico” e “sicurezza” hanno suscitato il comprensibile timore di una perdita di controllo da parte dei poteri pubblici in un campo delicatissimo dal punto di vista delle libertà fondamentali, qual è appunto il campo dell’ordine pubblico.
Come si è detto, il mantenimento dell’ordine pubblico è prerogativa esclusiva dei poteri pubblici e, in particolare, delle forze di polizia, sia nazionali sia locali. I cittadini non possono e non debbono intervenire in questioni che riguardano l’ordine pubblico. Possono invece prendersi cura del bene comune sicurezza urbana, che è un concetto più ampio di quello di ordine pubblico perché ricomprende, per esempio, il controllo del territorio in forme che non comportano l’uso della forza, ma solo una presenza vigile in zone a rischio.
Dal civismo individuale a quello organizzato
E’ sempre stata considerata una forma encomiabile di civismo quella che porta un qualsiasi cittadino a segnalare alle forze dell’ordine un fatto criminoso o situazioni potenzialmente dannose per la sicurezza della comunità.
Recentemente negli Stati Uniti ha fatto scalpore il caso di un professore di colore dell’Università di Harvard che, cercando di entrare in casa propria da un ingresso sul retro, aveva dato l’impressione ad una passante di essere un ladro. Costei aveva chiamato la polizia ed il professore era stato arrestato, con polemiche conseguenti sul razzismo della polizia.
Ma per noi i punti interessanti di questa storia sono altri: da un lato il fatto che la signora che passava di lì e lo aveva visto si era data la pena di chiamare la polizia e, dall’altro, il fatto che la polizia aveva risposto immediatamente alla chiamata.
In Italia quanti cittadini, nelle stesse circostanze, si sarebbero preoccupati di chiamare la polizia? E siamo sicuri che questa ultima, in un caso simile, sarebbe intervenuta con la stessa rapidità della polizia americana?
In sostanza la vicenda delle cosiddette “ronde”, al netto delle strumentalizzazioni partitiche e ideologiche, si può anche leggere come una vicenda in cui da un lato c’è scarso senso civico individuale, dall’altro la sensazione di non essere sufficientemente protetti dalle forze dell’ordine. Il mix di questi due elementi ha portato in alcune zone del Paese gruppi di cittadini a fare in forma organizzata quello che i singoli cittadini dovrebbero normalmente fare, cioè sentirsi responsabili di ciò che accade sul territorio in cui si vive, senza delegare sempre tutto alle istituzioni.
La Lega Nord, che è ben radicata nei territori in cui queste esperienze si sono sviluppate, se ne è immediatamente appropriata interpretandole alla luce della propria ideologia. Anche per questo le “ronde” sono state presentate come un presidio in funzione anti-immigrati, in quanto costoro sono additati dalla Lega come i principali responsabili dell’insicurezza percepita dai cittadini.
Adesso c’è un decreto del Ministro degli interni che disciplina dettagliatamente l’intervento dei cittadini per garantire la sicurezza sul proprio territorio, sia dal punto di vista dei soggetti legittimati, sia da quello delle attività che essi possono svolgere, sia infine dal punto di vista del rapporto con le istituzioni.
Va anche detto che questo decreto di fatto ingabbia l’impegno civico dei cittadini con tutta una serie di vincoli. Non è questo il modo con cui i soggetti pubblici dovrebbero sostenere i cittadini attivi quando si prendono cura dei beni comuni. L’art. 118 ultimo comma della Costituzione afferma che i soggetti pubblici devono “favorire” i cittadini attivi, non irreggimentarli.
Ma in questo caso probabilmente questo è il prezzo da pagare alla necessità di correggere l’impostazione tutta ideologica che è stata data a questa forma di intervento civico, fin dall’uso del termine “ronde”.