Il rilancio dell'in house providing

Gli strumenti di democrazia diretta devono convivere con quelli di democrazia rappresentativa in un equilibrio che precluda gli esiti dei primi

La sentenza

La Corte costituzionale si è pronunciata su ricorsi proposti da diverse regioni italiane in merito alla legittimità  dell’art. 4, d.l. 138 del 2011, convertito nella legge 148 del 2011. Tale articolo ha inteso colmare il vuoto determinato dall’abrogazione dell’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008, riguardante la disciplina dei servizi pubblici locali, per effetto della consultazione referendaria che si è tenuta a giugno 2011. I ricorsi hanno sollevato diversi profili di illegittimità , tra cui anche il contrasto diretto con gli articoli 14, 16 e 345 del Trattato sul funzionamento dell’UE, ma la corte ha considerato ammissibili solo quelli vertenti sul rispetto dell’art. 75 cost. che disciplina l’istituto del referendum abrogativo. Pur non trattandosi quest’ultima di norma che attiene al riparto di competenze, la Corte considera ammissibili questi ricorsi giacché una lesione dell’autonomia e delle potestà  delle regioni, ma anche degli enti locali sul piano regolamentare, è rinvenibile dalla disciplina contestata. Infatti, l’esito referendario – rimuovendo i limiti all’affidamento in-house che avevano la finalità  di rafforzare gli strumenti di affidamento al mercato in regime di concorrenza – ha automaticamente prodotto un effetto di espansione dei poteri regionali e locali. La norma contestata, che peraltro è stata modificata ulteriormente nel corso del 2012, ha invece reintrodotto delle limitazioni alla libertà  di scelta consentendo il ricorso all’ in-house providing ai soli casi di servizi dal valore inferiore ai 2 milioni euro, cosicché la nuova disciplina replicava l’impostazione di quella abrogata e, di più, adottava limiti perfino più stringenti di quella.
Alla luce di queste considerazioni la Corte ha considerato che tale opzione del legislatore produce un evidente effetto di vanificazione della consultazione referendaria in violazione dell’art. 75 cost., da cui si può ricavare implicitamente, secondo costante giurisprudenza costituzionale, il divieto di ripristino della normativa abrogata per volontà  popolare.

Il commento

Tale sentenza evidenzia tre aspetti in particolare. Il primo è l’effetto di fondo che questa determina. Considerando illegittima una disposizione che pone nuovi limiti alla libertà  di scegliere da parte di regioni ed enti locali se autoprodurre i servizi con lo strumento dell’ in-house providing oppure se ricorrere a terzi con strumenti che garantiscano la concorrenza dei fornitori di servizio, la Corte obbliga il legislatore a riconsiderare l’approccio utilizzato negli ultimi dieci anni tutto teso, anche se con risultati contraddittori e nella sostanza confusi, a privilegiare il ricorso al mercato e alla concorrenza. A questo punto si determina una condizione per la quale il legislatore statale, pur potendo legiferare in materia in base al titolo della concorrenza, dovrà  in verità  darne un’interpretazione equilibrata che faccia salva l’autonomia, anch’essa di livello costituzionale, di regioni ed enti locali per l’offerta dei servizi pubblici locali. O, in alternativa, potrebbe rinunciare a disciplinare tale materia lasciandola totalmente alle regioni, salvo dover accertare il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni. Si ricorda comunque che la rinuncia riguarderebbe i servizi pubblici locali ‘propri’, ovvero quelli mancanti di una stretta interdipendenza con segmenti di mercato più ampi che interessano anche il livello nazionale, come è il caso dell’elettricità  e il gas, nel cui caso invece il legislatore statale continuerà  a legiferare ampiamente anche se condizionato dalla disciplina europea. L’esito finale è quello di riallineare la disciplina nazionale dei servizi pubblici locali alle coordinate espresse da orientamenti consolidati in sede europea.
Tale condizione apre alla possibilità  di ricorrere con più facilità  all’in-house providing, ma spesso si trascura che questo ampliamento di libertà  degli enti locali e delle regioni potrebbe anche aprire a soluzioni gestionali innovative con maggiore protagonismo anche della cittadinanza attiva in termini di gestione integrativa di segmenti locali di servizio, se non, a precise condizioni, di tutto il servizio. In questo senso vanno anche le più recenti comunicazioni e gli atti dell’UE, che sono tesi a una maggiore responsabilizzazione dei soggetti non profit e del terzo settore più in generale (basti vedere l’atto per il mercato unico e gli atti che si stanno emanando in attuazione).
Gli altri due aspetti che meritano di essere sottolineati riguardano l’istituto referendario. E’ apprezzabile che la Corte abbia ricordato come nella trama costituzionale del nostro sistema giuridico gli strumenti di democrazia diretta si affiancano a quelli della democrazia rappresentativa in una condizione di equilibrio che deve essere rispettata per non vanificarne lo spirito. Osservano i giudici della legge che un «simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto ». Occorre equilibrio, dunque, tra i diversi strumenti di democrazia e il legittimo rinnovo di intervento da parte del legislatore non può vanificare l’esito degli strumenti di democrazia diretta. Anche se, tra le righe, la Corte sembra dire che neppure gli strumenti di democrazia diretta possono pretendere di limitare in assoluto un intervento del legislatore postumo non del tutto collimante con l’esito referendario, purché ciò abbia giustificazioni che derivano dal cambiamento dei fatti e dalla mutazione del quadro politico complessivo.
L’ultima considerazione riguardante l’istituto referendario concerne la valutazione di irrilevanza che la Corte ha dato all’argomento opposto dall’Avvocatura di Stato in merito alla circostanza che la nuova disciplina, giudicata illegittima, non si applicava ai servizi idrici. In tal modo la difesa intendeva sostenere che la scelta del legislatore aveva nei fatti rispettato l’intento dei promotori del referendum che era quello di salvaguardare dalla vecchia disciplina restrittiva i servizi idrici. E’ noto, infatti, che il referendum fu sostenuto con lo slogan dell’ «acqua bene comune », con cui s’intendeva sostenere l’inopportunità  di procedere alla privatizzazione di un bene che invece appartiene a tutti. La Corte ha correttamente fatto a meno di questo rilievo osservando come, al di là  di quanto dichiarato, l’effetto oggettivo della disciplina è stato quello di demolire l’intera disciplina dei servizi pubblici locali e dunque solo rispetto a questo vanno condotte le verifiche di coerenza tra la nuova disciplina e la vecchia. Se, tuttavia, questo appare ineccepibile, implicitamente solleva un problema grave sulla correttezza dell’informazione durante le campagne referendarie che non è di poco conto; infatti, l’abrogazione della norma non riguardava solo i servizi idrici, come la propaganda ha lasciato intendere, ma tutti i servizi pubblici locali. Se è vero che si sta diffondendo la tendenza a considerare i servizi pubblici come servizi di bene comune tout court, resta il fatto che la divaricazione tra propositi propagandati ed effetti oggettivi giuridici costituisce un aspetto problematico dei referendum non facilmente risolvibile, specie quando si tratta di quello abrogativo.



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