La rete francofona dei beni comuni

Il punto di vista francese sulla teoria e le pratiche di gestione condivisa dei beni comuni

Il 15 e 16 novembre si è tenuta a Parigi la prima sessione di lavoro della Scuola dei beni comuni (à€ l’Ecole des communs).  Questa esperienza nasce da un gruppo di persone riunite attorno alla Rete francofona dei beni comuni (Réseau francophone des biens communs), che si è costituita in modo più visibile nel 2013 in occasione del Festival Villes en bien communs, un mese di eventi auto-organizzati da attivisti dei beni comuni. L’esperienza del Festival, oltre ad offrire una visibilità  nazionale alla questione dei beni comuni, ha fatto emergere le prime constatazioni sulla situazione dei commons in Francia e sulle caratteristiche della comunità  francese dei commoners.

Prima fra tutte, il bisogno di dar voce ad esperienze che vanno al di là  delle questioni dei software liberi e delle libertà  digitali, fino ad allora ancora maggiormente rappresentate nel Réseau.
In secondo luogo, la necessità  di instaurare un dialogo tra i diversi rappresentanti di questo arcipelago di attori e di pratiche che danno di fatto una dimensione nuova allo statuto di citoyen, mito fondatore profondamente ancorato nella coscienza collettiva francese.
Infine, la trasmissione dei saperi, dei saper fare e dei saper essere che le pratiche di commoning fanno emergere, in modo più o meno formale e cosciente, è parsa fin da subito come una delle questioni fondamentali da affrontare. Si tratta di una questione condivisa da attori che operano nell’ambito della protezione delle risorse naturali, dei beni della conoscenza, dell’economia solidale, delle pratiche educative, della ricerca scientifica…

Alla scuola dei beni comuni

Da quest’ultima constatazione, parallelamente alle esperienze simili in corso a Montréal, Londra e Barcellona, è nata l’idea di dar vita alla Scuola dei beni comuni. Un’entità  diffusa che permetta a ciascuno di essere professore ed allievo allo stesso tempo, valorizzato per le competenze che gli sono proprie e che saprà  condividere. Una scuola aperta in cui analizzare ed immaginare insieme gli strumenti (conviviali) e le pratiche che emergono attorno ai beni comuni, i nuovi metodi di trasmissione dei saperi, le nuove forme di emancipazione che i beni comuni permettono, i nuovi modelli di sviluppo che lasciano intravedere.

I due giorni di lavoro della scuola dei Beni comuni si sono svolti secondo un metodo partecipativo che ha preso ispirazione dall’Open Space Technology. I partecipanti all’incontro hanno potuto proporre le tematiche che più stavano loro a cuore, cercando di rispondere a due principali domande: cos’è la Scuola dei beni comuni? Di cosa abbiamo bisogno per costruirla insieme?
Lungi dall’essere una restituzione fedele degli scambi di questi due giorni (disponibili online grazie agli appunti presi in diretta dai partecipanti[1]), le osservazioni che seguono tracciano delle piste di riflessione da approfondire nell’ambito della Scuola dei beni comuni e in altri contesti.

Prima fra tutte: pur essendo diversi gli ambiti d’azione di ciascuno, le questioni che emergono dall’azione dei commoners si inseriscono all’interno di tensioni paradigmatiche condivise: come ripensare il rapporto cittadini-amministrazioni pubbliche? Come ripensare lo statuto di citoyen? Come farsi spazio nella morsa pubblico-privato e trovare un quadro legislativo che possa accompagnare queste pratiche e non impedirle? Dove si nasconde il recupero di queste pratiche volontaristiche da parte delle forze neoliberali? Come ripensare le pratiche e gli strumenti di lavoro di ognuno affinché diventino fonte di emancipazione e di sviluppo personale e sociale nel rispetto della dignità  umana?

Le pratiche di commoning

Le pratiche di commoning implicano lo sviluppo di nuove posture individuali e collettive. Per questo, nelle forme di governance che si   sperimentano attorno ai beni comuni, è necessario lavorare sulle condizioni di interazione tra i membri della comunità . Come scritto da David Bollier[2], l’autorità , l’expertise e il talento sono presenti nei contesti legati ai beni comuni come in tutti i contesti. La sfida che si pone alle forme di governo dei beni comuni è quella di non trasformarli in fattori di prevaricazione o di dominazione. I contesti in cui si innescano dei processi di riappropriazione dei beni comuni sono spesso terreni di scontro. La comunità  che si riunisce per la protezione e la rigenerazione dei beni comuni deve quindi munirsi di strumenti di facilitazione e di emergenza dell’intelligenza collettiva che permettano di evitare di ricadere in vecchie forme di dominazione. Si tratta, qui, di istituire un tipo di pedagogia, una paideia democratica come dice Castoriadis, che permetta lo sviluppo di un sapere che è alla base del vivere comune : il saper essere (insieme).

Un’ultima riflessione, ispirata da questi due giorni, nasce dalla tendenza a guardare alle esperienze di commoning come a dei tentativi di elaborare risposte a determinati bisogni. Mi sembra più interessante cercare di analizzare queste esperienze come contesti in cui si creano interconnessioni portatrici di senso (che permettono lo sviluppo di conoscenze del proprio territorio, l’attuazione di pratiche collettive, la sperimentazione di nuove forme di democrazia diretta…). I beni comuni, prima ancora di essere dei luoghi di elaborazione di risposte a dei bisogni, sono laboratori di sviluppo di capacità , di libertà  e di co-responsabilità , secondo un modello di   sviluppo basato sui diritti dell’uomo (ABDH)[3]. I beni comuni diventano contesti di attuazione di questi diritti e, ancor più, dei diritti culturali[4] delle persone e delle comunità . Essi catalizzano una proiezione dell’identità  della comunità  che in essi si riconosce e che grazie ad essi si crea e ricrea.

Le nuove bellezze del Belpaese

Ciò che accade in Italia attorno alla questione dei beni comuni e le forme anche istituzionali in cui si traduce interessano fortemente i commoners francesi.
L’esperienza del Teatro Valle, i lavori della commissione Rodotà , il caso di Bologna e di tutte le città  che stanno approvando i regolamenti sulla collaborazione tra cittadini e amministrazioni, l’istituzione di assessorati ai Beni comuni, la gestione dell’acqua pubblica con l’azienda speciale ABC a Napoli, sono tutti esempi citati regolarmente nell’ambito degli incontri sui beni comuni.   Per quanto diversi fra loro, sono comunque casi emblematici e di riferimento, che fanno dell’Italia un paese all’avanguardia sulla questione. L’interesse va ben al di là  della semplice curiosità  intellettuale e impone l’instaurazione di un dialogo con queste esperienze. E’ necessario oggi analizzare insieme le condizioni che hanno permesso un tale slancio in avanti dell’Italia sulla questione, le strategie e le dinamiche hanno portato a questa eccellenza, le difficoltà  che queste scelte di gestione hanno fatto emergere, le trasformazioni che hanno indotto sulle forme di potere e, chiaramente, la traduzione che potrebbero trovare nel contesto francese. Un dialogo che si prospetta ricco e che potrebbe concretizzarsi nell’ambito di un grand tour dei beni comuni in Italia nel 2015. Questa idea comincia a circolare tra i membri della Scuola dei beni comuni a Parigi e potrebbe prendere la forma di workshop e giornate di lavoro per andare insieme più lontano nell’esplorazione dei possibili sviluppi di queste esperienze.

Decolonizzare l’immaginario

La scuola dei beni comuni intende diventare un luogo di incontro e cassa di risonanza per queste riflessioni, un luogo di sperimentazione e di test di nuovi strumenti di lavoro e di collaborazione. Intende essere una risorsa da cui attingere le capacità  e le competenze necessarie alla protezione e allo sviluppo di beni comuni. Prima fra tutte, la capacità  di de-privatizzare l’immaginario comune (che si tratti di forme di privazione da parte del privato come del pubblico). Mi sembra che questa sia la sfida principale cui far fronte, un vasto cantiere che si apre sul lungo termine. L’immaginazione e la nostra capacità  di creare nuovi immaginari collettivi e nuovi scenari possibili sono senza dubbio le risorse che abbiamo a disposizione per far fronte a questa sfida. Sono forse il bene comune che più di ogni altro permetterà  la riappropriazione degli altri beni comuni.

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[1] https://hackpad.com/Ecole-des-communs-La-Paillasse-Paris-VREQbWqB8Zk

[2] Articolo in cui propone un resoconto della sua partecipazione all’evento ” cugino ” della Scuola dei beni comuni: The Arts of commoning a Montréal. http://www.bollier.org/blog/art-commoning

[3] «  L’approche basé sur les droits de l’homme en développement, un renouveau pour la prise en compte des droits culturels  ?   », articolo di Patrice Meyer-Bisch, ottobre 2010. http://tinyurl.com/kuzpwzb

[4] http://www.unifr.ch/iiedh/assets/files/Declarations/declaration-it3.pdf