Il cibo, un bene comune molto particolare

La sezione di Ricerche è lieta di pubblicare il Quaderno di LabsusCibo, cittadini e spazi urbani“, curato da Daniela Ciaffi, Francesca De Filippi, Giulia Marra ed Emanuela Saporito, del gruppo di Labsus attivo in Piemonte. L’opera è disponibile in allegato al presente contributo, che riporta la postfazione alla stessa scritta da Gregorio Arena.

Nella riflessione sui beni comuni è possibile oggi fare riferimento a due prospettive teoriche, una che si potrebbe definire di tipo “funzionale”, l’altra che si potrebbe definire di tipo “comunitario”, fra loro complementari.
Secondo la prima teoria, sono beni comuni tutti quei beni che sono indispensabili non soltanto per vivere, ma per vivere una vita degna di un essere umano (quindi non solo aria, acqua, biosfera, territorio… ma anche istruzione, legalità , memoria collettiva, beni culturali…). Secondo questa teoria vi sono quindi dei beni comuni, materiali e immateriali, che sono tali per loro natura, in quanto svolgono in vari modi funzioni indispensabili al mantenimento della vita umana.
Secondo la teoria di tipo “comunitario”, sviluppata da Labsus negli ultimi tre anni in seguito all’esperienza di applicazione del Regolamento per l’Amministrazione condivisa, sono beni comuni quei beni di cui una comunità  si assume la responsabilità  in quanto li riconosce come indispensabili per il proprio benessere e per la propria identità . E quindi se ne prende cura, li rigenera, li sviluppa e li gestisce nell’interesse dell’intera comunità , creando nel corso di tali attività  nuove relazioni comunitarie, capitale sociale, senso di appartenenza, integrazione, coesione e fiducia reciproca.

Un bene comune molto particolare

Il cibo è un bene comune molto particolare, perché è tale sia per la teoria ” funzionale ” , sia per quella “comunitaria”. Entrambi i profili emergono in maniera molto chiara nella riflessione di Alfredo Mela in questo Quaderno: “Il cibo, in particolare, ha caratteri tali da attribuirgli un ruolo centrale tra i beni comuni. Da un lato, esso risponde ad un bisogno essenziale di tutti gli esseri umani o, meglio, di tutti i viventi: non a caso, nelle teorie che definiscono una gerarchia piramidale tra i bisogni umani, il cibo si trova sempre alla base della piramide. Dall’altro lato, tuttavia, esso non è solo una risposta strumentale ad un’esigenza fisiologica, ma è carico di valori simbolici e di fattori emotivi ed estetici, che lo portano ad assumere un valore culturale di primaria importanza. Il cibo è fonte di identità  personale e collettiva e, come tale, può favorire forme di solidarietà  e di condivisione che trascendono molti fattori di differenziazione. Attorno al cibo si possono costruire nuove forme di ibridazione culturale e nuovi legami civici. Ovviamente in questo processo non c’è nulla di automatico: il suo sviluppo dipende da un paziente lavoro di costruzione dal basso, che si esprime in molteplici iniziative”.
Il cibo rientra certamente nell’elenco dei beni comuni secondo la teoria “funzionale”, perché il cibo è indispensabile per vivere. Ma rientra fra i beni comuni anche secondo la teoria “comunitaria”, perché come sottolinea Alfredo Mela “Il cibo … può favorire forme di solidarietà e di condivisione che trascendono molti fattori di differenziazione. Attorno al cibo si possono costruire nuove forme di ibridazione culturale e nuovi legami civici”.
Questa ultima osservazione è particolarmente interessante perché fa emergere una caratteristica peculiare del cibo, quella che gli attribuisce “un ruolo centrale tra i beni comuni”. Secondo la teoria “comunitaria”, infatti, il valore aggiunto derivante dalla cura condivisa dei beni comuni da parte di un gruppo di abitanti di una città o di un paese sta proprio nella nascita o nella ricostruzione dei legami che li uniscono.

Amministrazione condivisa e legami di comunità

Anche per questo noi di Labsus andiamo dicendo fin dalla nostra nascita, dodici anni fa, che i cittadini attivi non sono sostituti dell’amministrazione che suppliscono alle sue inefficienze od alla mancanza di risorse pubbliche. Essi non sono manutentori dilettanti, bensì cittadini che vogliono riappropriarsi di ciò che in fondo è sempre stato loro: spazi pubblici, parchi, scuole, beni culturali, etc..
I cittadini attivi esercitano con mezzi nuovi quella sovranità che secondo l’art. 1 della Costituzione “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Oggi, fra queste forme per l’esercizio della sovranità  popolare c’è anche quella prevista dall’art. 118, ultimo comma, secondo il quale “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività  di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
L’amministrazione condivisa dei beni comuni, grazie alla quale cittadini e amministrazioni locali si alleano e condividono responsabilità e risorse nell’interesse generale è una delle modalità con cui i cittadini italiani, grazie al riconoscimento nella nostra Costituzione del principio di sussidiarietà, possono esercitare la loro sovranità. E la caratteristica peculiare di questo nuovo modo di essere sovrani e di partecipare alla vita pubblica, come si diceva più sopra, sta appunto nel fatto che quando un gruppo di abitanti di un quartiere cittadino o di un borgo si uniscono per prendersi cura di uno spazio pubblico o di una scuola essi così facendo creano dal nulla o ricostruiscono quei legami di comunità che sono la vera forza dell’Italia, la fonte della nostra resilienza, quella che ci consente di reggere in questi anni terribili alla crisi economica e sociale.
Ma dal punto di vista della creazione di legami di comunità  fra i cittadini, il bene comune di cui essi si prendono cura, sia esso uno spazio pubblico, un parco cittadino, una scuola o un bene culturale, è neutrale, non influisce in maniera significativa sull’aggregarsi dei cittadini attivi. Essi si “stringono”, per così dire, intorno al bene comune e così facendo creano fra di loro legami sociali e personali che spesso continuano anche dopo che è terminata l’attività  di cura del bene comune.

Il cibo è un bene comune che crea nuovi legami civici

Del tutto diverso è il caso del cibo, proprio per la ragione sottolineata da Mela, cioè il fatto che “Attorno al cibo si possono costruire nuove forme di ibridazione culturale e nuovi legami civici ” .
Il cibo, in sostanza, è un bene comune che crea esso stesso relazioni, in almeno due modi.
Il primo è di esperienza comune e quotidiana, in quanto mangiare insieme è uno dei modi principali con cui si instaurano e si mantengono le relazioni, ovunque nel mondo, ma in Italia in particolare. Noi italiani siamo universalmente riconosciuti come ” cultori ” del buon cibo, della buona tavola, della convivialità . Del resto, basta ascoltare un gruppo di italiani a tavola… è sicuro che dopo un poco cominceranno a parlare di cibo! Quello che stanno mangiando, quello che hanno mangiato, di altri posti dove le stesse pietanze sono più buone o cucinate in altri modi… il cibo in Italia nutre le relazioni, oltre che i corpi.
Il secondo modo in cui si manifesta questa particolare caratteristica del cibo, di essere cioè un bene comune che crea esso stesso relazioni, lo individuano nel loro contributo in questo Quaderno Daniela Ciaffi, Francesca De Filippi, Giulia Marra ed Emanuela Saporito, affermando che “Le ‘esperienze parlanti‘ testimoniano il proliferare di pratiche di prossimità  dove il cibo è strumento di inclusione sociale. Dagli orti di comunità , ai gruppi di acquisto solidale, fino ai progetti di agricoltura sociale, il cibo agisce da strumento di mediazione culturale, facilmente ibridabile. Il cibo può facilitare infatti il dialogo transculturale, poiché aggregatore di valori simbolici e di fattori emotivi ed estetici … La panoramica di esperienze, buone prassi e progetti in cui il cibo assume il ruolo di dispositivo per ricucire e ritrovare socialità  è ricca. Vengono favorite forme di solidarietà  e di condivisione che si basano sulla prossimità  e sul rapporto con gli spazi in cui questo avviene. Gli orti urbani, le cucine comuni delle carceri, le mense benefiche, le cucine di quartiere, sono quei luoghi in cui è possibile avviare degli esercizi di cura, dello spazio, ma anche della persona, nelle forme più ibride tra soggetto pubblico, soggetto privato e società  civile e con una pluralità  di approcci e visioni”.

I patti di collaborazione come ” luoghi ” densi di relazioni

Ma se è vero che il cibo è un bene comune particolare perché crea esso stesso relazioni, allora si spiega perché, come afferma Maria Bottiglieri “I principi e gli strumenti dell’Amministrazione condivisa, intesa come attuazione del principio di sussidiarietà  orizzontale di cui all’art. 118 ultimo comma della Costituzione, appaiono particolarmente strategici per accompagnare le sfide regolatorie e organizzative della Urban food policy”. In sostanza, se il cibo è un bene comune che crea esso stesso relazioni, allora i patti di collaborazione sono gli strumenti giuridici più adeguati per la cura del cibo come bene comune e per la promozione del diritto al cibo adeguato, perché sono essi stessi il punto di arrivo operativo di un “sistema” di relazioni.
Il principio di sussidiarietà  è un principio eminentemente relazionale, in quanto vive delle relazioni fra soggetti privati e soggetti pubblici. A sua volta il modello funzionale e organizzativo dell’amministrazione condivisa, che dalla sussidiarietà  trae la sua legittimazione, è fondato su una fitta trama di relazioni fra cittadini e amministrazioni, fra cittadini e cittadini, fra cittadini, amministrazioni e tutti gli altri soggetti presenti nelle nostre comunità . E infine i Patti di collaborazione sono i ” luoghi ” dove la trama di relazioni che innerva l’amministrazione condivisa si addensa, per così dire, formando “grumi” di relazioni dalle quali scaturiscono azioni concrete di cura del bene comune oggetto del patto.
Tutto questo è vero per tutti i Patti che hanno come oggetto la cura di tutti i beni comuni. Ma nel caso dei patti riguardanti la cura del cibo come bene comune questo è doppiamente vero, nel senso che in tali patti si condensano due trame di relazioni, quelle che normalmente innervano l’amministrazione condivisa (cittadini e amministrazioni, cittadini e cittadini, etc.) e quelle che sono prodotte dal cibo stesso, perché “Attorno al cibo si possono costruire nuove forme di ibridazione culturale e nuovi legami civici” e “Le ‘esperienze parlanti’ testimoniano il proliferare di pratiche di prossimità  dove il cibo è strumento di inclusione sociale”.
Riprendendo e chiarendo meglio quanto si diceva sopra a proposito dei Patti di collaborazione per la cura del cibo come bene comune e per la promozione del diritto al cibo adeguato, in questa prospettiva essi sono dunque il punto di arrivo operativo non di un “sistema” di relazioni, bensì di due “sistemi” di relazioni. Quelle prodotte dall’Amministrazione condivisa in quanto modello organizzativo fondato sulle relazioni e quelle prodotte dal cibo, in quanto bene comune che produce esso stesso relazioni.
In conclusione, si può dire che sarà  molto interessante seguire nei prossimi anni la stipula di Patti di collaborazione riguardanti il cibo come bene comune, con queste caratteristiche peculiari, in una città  che ha riconosciuto nel proprio Statuto il diritto a un cibo adeguato e che ha adottato il Regolamento per l’amministrazione condivisa. Una combinazione inedita e potenzialmente innovativa, da cui potrebbero emergere risultati utili anche per altre realtà.

In allegato è disponibile il Quaderno Labsus “Cibo, cittadini e spazi urbani”.