Beni comuni tra materialità e immaterialità

Si tratta in genere di risorse “che non presentano restrizioni nell’accesso e sono indispensabili alla sopravvivenza umana e/o oggetto di accrescimento con l’uso”. Il concetto è antico e fa riferimento, in termini storici, “alle terre comuni di uso collettivo per diritto consuetudinario delle popolazioni rurali” nell’Inghilterra del XVII secolo. Da allora molto è cambiato e i “beni comuni” hanno acquisito nuove e diverse accezioni, ma la sostanza non è mutata perché si tratta sempre di risorse collettive, su cui “tutte le specie esercitano un uguale diritto” e che “rappresentano uno dei fondamenti del benessere e della ricchezza reale”. Come sostiene Gregorio Arena, i beni comuni sono quei beni che “se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono tutti”. È una risposta che funziona bene come “griglia” per capire se un bene può essere considerato bene comune oppure no.
Sempre l’Enciclopedia Treccani definisce la sussidiarietà come quel “principio e criterio” con cui si ripartiscono funzioni e competenze amministrative all’interno dell’ordinamento giuridico. Essa si esprime attraverso due modalità: verticale e orizzontale. In particolare, quella “orizzontale si svolge nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà e si basa sul presupposto secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono direttamente i privati cittadini (sia come singoli, sia come associati) e i pubblici poteri intervengono in funzione ‘sussidiaria’, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione”, favorendo così l’autonoma iniziativa dei cittadini.
È abbastanza evidente che la definizione di “beni comuni”, come di risorse senza restrizioni e funzionali al benessere – e quindi più concretamente alla libertà e alla felicità – dell’uomo, presupponga il doppio “stato” dei beni cui ci riferiamo. Questi non saranno solo di natura materiale e tangibile, come quelli necessari alla sopravvivenza fisica dell’uomo (beni naturali, ambientali, edilizi ecc.), ma anche di natura immateriale e intangibile, quelli cioè considerati indispensabili alle facoltà intellettive ed emotive, che dilatano la dimensione della libertà interiore della persona (legalità e sicurezza, memoria collettiva, cultura, educazione, informazione ecc.). Quest’ultimo ambito, quello dei “saperi” dà lo spunto alla riflessione che qui vogliamo condividere.

Un progetto di riappropriazione identitaria

Il processo di globalizzazione e la diffusione capillare del web hanno determinato in alcuni ambiti professionali la necessità di ripensare le modalità di approccio verso il patrimonio culturale sia degli addetti alla sua tutela, in certo senso persi di fronte alle enormi potenzialità del web, sia dei suoi fruitori sistematicamente sollecitati dal mondo virtuale. Di fronte a questa distorsione che provoca lo spaesamento di molti operatori culturali si misurano alcune iniziative tese a superare questa “crisi” attraverso la condivisione del sapere.
Tra queste iniziative, si pone “Commons. Patrimoni in comune, storie condivise” dell’Associazione Passages, che ha proposto agli operatori culturali degli archivi e delle biblioteche di raccontare la propria crescita professionale, la natura e le finalità delle loro professioni e di presentare gli enti coinvolti, prestando particolare attenzione ai loro patrimoni. Ciò ha permesso loro di riconsiderare l’approccio ai beni culturali e di riappropriarsi della propria professionalità. Il progetto ha ricevuto il sostegno della Compagnia di San Paolo nell’ambito dell’edizione 2016 di OPEN Progetti innovativi di Audience Engagement ed è stato realizzato in collaborazione con l’Archivio Storico della Città di Torino, con le Biblioteche Civiche Torinesi, con il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino, con il Polo del ‘900 e con la Società Cooperativa weLaika.

Gli operatori culturali degli enti coinvolti sono stati invitati ad apprendere l’utilizzo del digital storytelling per riportare la loro esperienza attraverso la modalità del “racconto condiviso” sotto la guida e il coordinamento di Barbara Bruschi del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione. Il risultato è stato quello di realizzare una collezione di cortometraggi dedicati alla riscoperta di patrimoni archivistici e bibliotecari e di beni diffusi nel territorio urbano, in una dimensione narrativa emotiva e partecipata sulla base delle esperienze formative e lavorative degli operatori. Le storie hanno permesso di riscoprire professionalità “dimenticate” o sottovalutate che si prendono cura della cultura come patrimonio collettivo e bene comune della città. Inoltre, le narrazioni soggettive mostrano come tali professioni presentino sfumature diverse e talvolta manchino di una percezione condivisa da parte degli stessi operatori del settore.

Bibliotecari e archivisti “soul storytellers

Il racconto delle diverse esperienze non solo ha permesso ai narratori di “fare il punto” sull’attività professionale, accrescendo la consapevolezza del proprio “mestiere”, ma, sollecitando gli operatori a mettersi in gioco con strumenti comunicativi estranei al loro ambito professionale, ha contribuito a ridefinire le modalità di auto rappresentazione della categoria. Allo stesso tempo, l’esercizio ha consentito ai rappresentanti di queste professioni, specie archivisti e bibliotecari, generalmente percepiti dall’utente come distanti dal mondo reale e prigionieri di ambienti polverosi, come operosi custodi di una coscienza storica, artistica e culturale viva e ramificata nel presente.
Tali racconti permettono di cogliere il valore della professionalità con cui questi custodi della memoria collettiva difendono l’anima fragile delle nostre comunità, incalzate dalla rapidità e dalla superficialità del mondo digitale-globalizzato, con il rischio di perdere di vista quell’anima, che è sapere e coscienza, per appropriarsi di “informazioni” utili al più alla contingenza e al momento. Dalle storie emerge come soprattutto oggi sia importante mettere il passato e la tradizione in funzione del presente e del futuro per impedire la deriva della cultura e agevolare la “comunicazione” dei saperi e delle conoscenze.
Il tema della memoria da difendere – obiettivo costante di strutture specialistiche e generaliste impegnate nella raccolta di patrimoni archivistici, documentali e librari – e della sua funzione attiva e non solo celebrativa permette quindi agli operatori del settore di riconoscersi e di farsi riconoscere come promotori oltre che custodi di un bene comune immateriale la cui cura comporta l’arricchimento dell’intera comunità. Senza queste figure sarebbe difficile recuperare quella identità che la cultura occidentale, ma non solo, fatica a ritrovare e a tessere nella trama del proprio divenire. Solo la consapevolezza del proprio ruolo e della missione sociale può consentire a questi operatori culturali di far sì che la memoria non sia diluita in quel processo di mercificazione dell’informazione che rischia di svilire e appiattire suoi i contenuti.

Una comunità di conoscenza condivisa

Una delle conseguenze della globalizzazione e della crisi economica è la riscoperta dell’appartenenza a comunità di valori condivisi e il ritorno a forme collaborative tra corpi sociali di piccole e medie dimensioni, in cui la persona torna a essere parte attiva e vitale della rete di relazioni senza rinunciare alla dimensione universale e alla possibilità di interagire con essa sia come singolo sia come associato. Tale condizione ha favorito il sorgere di fenomeni come la decrescita in economia, una sorta di ridefinizione degli equilibri tra necessità e bisogni, seguendo il principio dello sviluppo sostenibile, o come quello della conoscenza condivisa della piattaforma Wikipedia, espressione di una collaborazione partecipata per l’accrescimento del progetto comune.
In Italia, quest’ultima esperienza è entrata anche in contatto con il modo delle biblioteche fisiche attraverso il progetto GLAM, che ha portato a una stretta collaborazione fra i bibliotecari “reali” e “virtuali” al fine di accrescere le sinergie fra le due dimensioni del sapere e accrescere le potenzialità della “conoscenza condivisa”. Ma la collaborazione culturale va oltre, come sostiene Eusebia Parrotto, responsabile dei servizi per il pubblico della Biblioteca comunale di Trento e referente di un progetto sull’utilizzo di strumenti digitali collaborativi, perché coinvolge anche il pubblico dei lettori. Le biblioteche infatti, “anche le migliori, anche le più efficienti, dovrebbero aprirsi alla partecipazione del pubblico perché il sapere non sta più solo nei libri, il sapere sta nelle persone. Più le persone stanno insieme e si scambiano saperi reciproci, più la società può crescere, più la biblioteca cresce”.

Beni culturali e sussidiarietà… quale legame?

È proprio nel solco di questa filosofia e nell’ambito di questo tipo di fenomeni che si inserisce il progetto “Commons” con le sue digital stories, rivolto a valorizzare l’attività di salvaguardia di quel patrimonio culturale intangibile che è possibile trasmettere attraverso esperienze condivise, racconti ed esempi di vita e di dedizione alla cura della memoria. Un modo anche per rappresentare la funzione sociale che questa professione svolge, fungendo da tramite consapevole tra i depositi del sapere e la quotidianità dell’esistenza. Il ruolo qui assunto dalle istituzioni segue o almeno si ispira al principio di sussidiarietà orizzontale che Labsus si propone di diffondere per il perseguimento di buone pratiche in ambito amministrativo.
Questo principio che tende al perseguimento della cura dei beni comuni nell’interesse generale si avvale anche delle capacità professionali del singolo e dell’impegno delle formazioni sociali, quali ad esempio le associazioni, culturali in questo caso. Queste poi affiancano gli enti preposti alla cura del patrimonio bibliotecario e archivistico, integrando le funzioni pubbliche. Ed è quindi seguendo un principio eminentemente giuridico e quindi pratico – attinente a quanto succede nella prassi – che le discrasie emerse negli ambiti lavorativi sopra descritti potranno forse essere superate, permettendo agli operatori di recuperare quella consapevolezza di sé e quella forza che per conseguenza non potrà che portare a una maggiore coscienza delle nostre radici e a una migliore condivisione dei saperi.

Bibliografia
C. Petrucco, Learning with digital storytelling, in “Italian Journal of Educational Technology”, v. XVII, n. 1 (2009)
A. Zanni, Le biblioteche e l’universo di Wikipedia, in “AIB notizie”, n. 2 (2012)
S. Giaccai, La biblioteca in Wikipedia, in “AIB notizie”, n, 3 (2012)
V. Gentilini, Librarians are Wikipedian Too, in “Bibliotime”, n. 3 (2012)

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