Grazie all'attivazione dei cittadini lo spostamento del mercato ha dato vita ad una piazza condivisa

L’architetto Valentina Cocco della Vice Direzione Generale Servizi al Territorio del Comune di Roma è la progettista della nuova piazza Testaccio, nata da un dialogo con il comitato di quartiere per il recupero di uno spazio urbano vuoto. “Testaccio ha bisogno di più luoghi di scambio e di integrazione sociale, riconosco un legame tra la piazza e il mercato ma vedo anche una differenziazione: la connessione si trova nella quotidianità delle persone”.
Un breve riassunto – per tappe – delle puntate precedenti ci aiuterà a riprendere il filo del nostro viaggio attraverso i mercati rionali di Roma. Cominciato per indagarne le possibilità di rinascita, ci ha portati a conoscere in maniera approfondita il territorio e le comunità che si impegnano per la tutela e la rigenerazione di un bene comune.

L’architetto e urbanista Daniela Patti – insieme ad Eutropian– è stata la nostra prima guida tra progetti, esperimenti e pratiche virtuose a cavallo tra il passato e il futuro dei mercati di quartiere, per ragionare di questi spazi come uno strumento di riattivazione sia urbana che economica. Siamo stati poi a Primavalle, storica borgata romana in zona Battistini, con Elisa Maceratini, parte integrante di Interazioni Urbane. Ci siamo spostati verso Torpignattara accompagnati da Claudio Gnessi – Lead Interaction Designer e Community Cultural Manager – del Comitato di Quartiere Tor Pignattara I Love Torpigna che ci ha permesso di capire come si è innescato il processo partecipativo in una piccola parte di mondo alla periferia est della Capitale.
E oggi siamo invece a Testaccio, dove la riqualificazione della piazza – conclusa nel 2013 – è strettamente connessa alla realizzazione e allo spostamento del nuovo mercato. L’architetto Valentina Cocco ha dialogato con il comitato di quartiere – Testaccio in piazza – per il recupero di uno spazio urbano vuoto, dando concretezza ad un progetto sostenibile e condiviso che i cittadini avevano cominciato ad immaginare nel 2010.

Architetto ci racconta il processo di progettazione partecipata che ha coinvolto la piazza di Testaccio?

I cittadini del rione avevano preso l’iniziativa di costituire un comitato di quartiere – Testaccio in Piazza – perché proprio su quello spazio si percepivano dei mutamenti importanti. Con lo spostamento del mercato infatti sarebbe rimasto vuoto. Il mercato era lì dal 1911, inizialmente come insediamento spontaneo, poi consolidatosi col tempo fino alla costruzione dell’enorme tettoia in cemento che copriva l’intera piazza. All’inizio del 2000 è cominciato un ragionamento proprio sull’idoneità di quel luogo che ospitava il mercato ed è stato valutato opportuno uno spostamento, di fronte al mattatoio. Dopo sei anni di progettazione e lavori sul mercato, la piazza si è liberata, la tettoia è stata demolita e i cittadini si sono attivati per proporre all’amministrazione una soluzione.

E qui è entrata in gioco la sua progettazione…

Io sono arrivata in un momento in cui il comitato era andato abbastanza oltre col progetto. Credo che nei processi partecipativi sia fondamentale mettere i cittadini in condizione di definire delle linee guida rispondenti alle loro necessità e alla loro visione di abitanti del quartiere, ma non di sostituirsi ai progettisti, perché quando dal desiderato si passa poi al disegno c’è il rischio di incorrere in errore e di non raggiungere un buon risultato.

Ci spiega come si è sviluppato il processo partecipativo?

Erano state individuate una serie di priorità e alla fine di una fase di confronto esistevano otto progetti che prevedevano tantissime soluzioni, in tutte c’era l’anima dei cittadini di Testaccio: io sono arrivata a questo punto e sono stata molto ben accolta. Ho iniziato a lavorare con il comitato e abbiamo desunto i minimi comuni denominatori. Su un solo punto in realtà è stato complesso trovare una conciliazione ed era la questione riguardante la recinzione, che si è conclusa con un referendum gestito dal comitato. Fortunatamente è prevalso il buon senso di lasciare la piazza aperta, perché la recinzione avrebbe rappresento solo la risposta più facile ad una serie di timori: dalla movida, all’incapacità di gestire lo spazio pubblico… Sarebbe stata una sconfitta.

La piazza di Testaccio è tornata definitivamente alla vita con il ripristino della fontana delle Anfore. Che significato ha avuto per gli abitanti del quartiere?

Era una necessità del rione quella di spostare la fontana per riportarla al suo posto: voleva dire nobilitare il cuore del quartiere, restituire a Testaccio il simbolo delle anfore che lo identificano. Negli anni tra il 1926 e il 1930 si diceva da più parti che il rione non fosse degno di quella fontana, perciò fu trasferita in un luogo ritenuto più adeguato ad accoglierla. E’ stato un sacrificio per tutti gli abitanti e l’operazione per riportarla al centro della piazza non è stata banale: la fontana è fatta di travertino, composta da 360 pezzi, è monumentale. Ho compreso che bisognava lavorare proprio su questo, perché anche se non era un elemento funzionale, era simbolico e da non sottovalutare per il quartiere. L’abbiamo inaugurata nel 2015 ed è stato come dare il via ad una nuova socialità.

Il progetto ha puntato tutto sul recupero di uno spazio urbano vuoto, ci spiega com’è la nuova piazza?

Io come progettista ho cercato la semplificazione, quindi di ridurre all’osso e di fare sintesi tra le diverse proposte del comitato, di trovare insomma dei punti condivisi. Appena è stata demolita la tettoia in cemento armato si sono viste le potenzialità della piazza, da un vuoto ci era stato restituito un pieno. La piazza esisteva già, con il sistema dei platani a filare tutt’intorno che ne definiva il perimetro, l’elemento centrale della fontana è stato risolutore. Dopodiché c’è stata una grande cura nel rendere lo spazio più nobile possibile, di interpretare la semplicità tenendo conto di tutti i dettagli, allargando il processo partecipativo anche agli uffici, all’Ama, alle Sovrintendenze, in modo da coinvolgere anche chi quella piazza avrebbe dovuto gestirla e si sarebbe dovuto occupare della manutenzione. Se quella piazza avesse due lati pedonalizzati fino all’attacco degli edifici acquisterebbe ancora più valore, ma questa è una suggestione che potrebbe essere ancora realizzata.

Gli abitanti di Testaccio sognavano questa riqualificazione, che valore ha per loro la nuova piazza?

Quando la piazza era un mercato, di quelli con i carretti, le persone portavano i tavoli e le sedie da casa per restare in piazza a mangiare, i bambini giocavano, era un’estensione dello spazio domestico in un certo senso. Da qui l’idea di restituire una dimensione simile, attraverso le panchine in iroco e ferro, affiancate da aiuole ricoperte da griglie in Corten decorato con le impronte delle foglie di platano, disposte come se fosse un salotto, con elementi più bassi, pensati proprio per la piazza di Testaccio. I cittadini avevano mostrato un’esigenza di spazi verdi e di giochi per i più piccoli, e qui si è aperta una fase dialettica: il rapporto partecipativo è un rapporto osmotico ma non può essere unidirezionale, altrimenti gli impulsi diventano contraddittori, devono essere perciò elaborati e restituiti, come nei processi partecipativi codificati. Ci siamo resi conto che le aiuole sarebbero state impossibili da gestire: restano perciò quattro alberi di Jacaranda caratterizzati da una fioritura indaco incredibilmente bella, li abbiamo scelti interpretando questa esigenza legittima dei cittadini di avere una macchia di colore, dei fiori. I giochi invece non sono stati necessari, i bambini hanno imparato a percepire la piazza come loro, giocano con tutto, si muovono con le biciclette e non hanno l’esigenza di un recinto con qualcosa di costruito per il loro tempo libero. Quello che si vede nella piazza oggi – che mi rende orgogliosa e felice – sono le persone che la riempiono e la vivono, senza che ci sia mai stato un episodio di vandalizzazione anche legato alla movida. E’ la piazza del rione, luogo di incontro tra generazioni.

Invece che legame esiste tra la nuova piazza e il nuovo mercato rionale? Sorgono a poche centinaia di metri l’uno dall’altra, si è creato un unico luogo di scambio e integrazione?

Dal mio punto di vista un rione come Testaccio ha bisogno di più luoghi, non è necessaria un’integrazione. In uno si va a fare la spesa – come responsabile del procedimento ho seguito anche il progetto del mercato – si fruisce dello spazio centrale condiviso, della zona street food, ci sono i banchi pensati come laboratori per far evolvere anche il mercato dal concetto tradizionale (che rappresenta una cultura un po’ datata, lo schema della mamma che va la mattina presto al mercato è disatteso ormai). Il mercato è un luogo con cui Testaccio si apre anche all’esterno, comunica con l’università e i rioni circostanti. La piazza e il mercato sono entrambi assolutamente testaccini, punti di aggregazione, la connessione tra loro si trova nella quotidianità delle persone, ma l’utenza è differenziata, la tipologia di spazio è diversa e questo non lo ritengo uno svantaggio. Nel mio immaginario sarebbe sempre auspicabile un potenziamento della pedonalità da un luogo all’altro, riconosco un legame ma vedo anche una differenziazione, il rione si è arricchito di uno spazio in più. Gli abitanti del quartiere si sono fidati dell’innovazione, della reinterpretazione di due spazi storici, grazie al comitato Testaccio in Piazza è riuscita la mediazione tra l’Amministrazione e i cittadini, e si è arrivati al raggiungimento dell’obiettivo più importante, quello di riappropriarsi di un luogo centrale, che oggi viene curato con attenzione. I cittadini sono dei ricettori, controllano, verificano, si preoccupano, sono tutt’ora in contatto con me, c’è il riconoscimento di un lavoro condiviso e dell’amore che hanno per la piazza… Sembra che ci sia sempre stata.

Gli otto anni trascorsi dall’avvio di questo processo di partecipazione sono tanti e oggi, forse, il percorso di Testaccio potrebbe fare un passo in avanti, se anche Roma avesse un Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni. Ovvero, dotandosi di uno strumento utile e flessibile come il patto di collaborazione, non solo per concordare gli interventi di rigenerazione e di gestione della Piazza, ma anche per renderli sostenibili nel tempo.