Pubblichiamo con piacere la tesi di Virginia Viale su “La pubblica amministrazione condivisa: verso una costruzione giuridica”, in cui l’autrice esercita una riflessione sugli sviluppi dell’amministrazione condivisa, intesa quale modello collaborativo di partecipazione della cittadinanza attiva allo svolgimento di attività di interesse generale e alla cura dei beni comuni. Un modello, come sottolinea la stessa autrice, in grado di dare vita a forme inedite di esercizio della sovranità, senza superare quelle tradizionali, ma integrandole per ampliare lo spettro delle possibilità dell’azione democratica. Lasciamo ora a Virginia Viale il compito di introdurci alla sua riflessione.
La partecipazione civica
La volontà di superare la crisi del sistema rappresentativo ha dato vita a nuove forme di partecipazione dei cittadini nella gestione dell’attività amministrativa, in particolare nuove politiche di inclusione sociale, nonché di gestione e valorizzazione del territorio, attraverso modelli di collaborazione sinergica tra Comune e cittadini.
La messa in discussione del sistema rappresentativo ha altresì permesso di rileggere il testo costituzionale nell’ottica dell’accrescimento dei momenti di contatto tra Stato e cittadini, mediante il coinvolgimento di questi ultimi nella funzione pubblica: la democrazia partecipativa, quale espressione del principio di sovranità popolare, si profila come metodo democratico più efficace nell’attività della pubblica amministrazione. Ciò richiede il ridefinirsi della cittadinanza amministrativa, ora volta all’integrazione quanto più possibile del cittadino in ogni livello dell’ordinamento, attraverso una partecipazione immediata e continuativa ai processi decisionali politici ed esecutivi. In tal modo, l’individuo si lega alla comunità di appartenenza, attraverso una relazione sostanziale, e si afferma una sovranità maggiormente partecipata.
Accanto al riaffermarsi del ruolo del cittadino segue l’esigenza di rimodellare la concezione della pubblica amministrazione, che, negli ultimi anni, si è concentrata sul trinomio semplificazione, liberalizzazione e digitalizzazione, con parziale, se non totale, accantonamento della componente partecipativa.
In questo contesto, l’elaborazione di un nuovo modello di amministrazione, c.d. amministrazione condivisa, fondato su una relazione paritaria e su una concezione del singolo come portatore non solo di bisogni, ma anche di risorse per la realizzazione dell’interesse generale, è necessario per superare il modello tradizionale c.d. bipolare, in cui i soggetti pubblici sono i soli ad essere legittimati ad operare nell’interesse generale, mentre i cittadini sono per definizione in una posizione passiva, di meri destinati dell’intervento dei pubblici poteri.
Tale modello trova un riconoscimento costituzionale con la riforma del Titolo V della Costituzione, ed in particolare col principio di sussidiarietà orizzontale: quest’ultimo, essendo essenzialmente relazionale, vive laddove i cittadini si attivano con autonome iniziative per la realizzazione dell’interesse generale. In tal modo, essi non solo si adoperano per il miglioramento della comunità di appartenenza, ma integrano anche le risorse in possesso della pubblica amministrazione. La partecipazione alla formazione della società civile, pertanto, dà effettività al principio democratico costituzionale, quale principio guida dell’ordinamento, e trova il suo riconoscimento nei diritti inviolabili dell’uomo, nel dovere di solidarietà politica, economica e sociale e nel principio di uguaglianza sostanziale.
Il tema della partecipazione civica è inscindibilmente legato alla teoria dei beni comuni, i quali, in virtù della loro relazione qualificata e particolare con la comunità, si prestano ad essere beni non solo preordinati a soddisfare un interesse pubblico, ma anche ancorati ed amministrati da una comunità di riferimento. In questo senso, essi rappresentano la base della democrazia partecipativa.
Limiti e prospettive nella tutela dei beni comuni
Stanti le suesposte premesse, occorre tuttavia sottolineare come le istanze partecipative dei singoli, perché adeguatamente tutelate, necessitano di essere difese dinnanzi al giudice amministrativo nel caso in cui venissero frustrate dall’amministrazione. È, infatti, strettamente attuale il problema degli interessi diffusi, propri degli individui a cui fa capo il diritto di partecipazione, nonché di chiunque abbia interesse alla salvaguardia e alla tutela dei beni comuni.
Nonostante secondo la proposta di riforma della Commissione Rodotà «alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque […]», gli interessi diffusi oggi non sono ricondotti tra le situazioni soggettive tutelabili direttamente davanti al giudice.
Innanzitutto, le stesse formulazioni degli art. 7 e 9 della legge 241 del 1990 riconoscono la rappresentanza procedimentale ai soli interessi individuali e collettivi, differenziati e qualificati. E seppur l’art. 9 consenta ai cittadini portatori di un interesse diffuso di intervenire nel procedimento, tuttavia le garanzie partecipative sono riconosciute soltanto ad associazioni e comitati strutturati. Ciò anche in tema di legittimazione processuale, dove l’interesse diffuso trova tutela come interesse collettivo. Come sottolineato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel febbraio 2020, l’ente esponenziale non può azionare un diritto altrui, bensì può far valere una situazione propria, data dal fatto che l’interesse diffuso, presente allo stato fluido nella comunità di riferimento, si personalizza in capo all’ente divenendo un interesse suo proprio.
Uno spiraglio per ampliare la legittimazione processuale degli interessi diffusi potrebbe essere riconosciuto invocando la portata percettiva del principio di sussidiarietà orizzontale. In questa direzione, le innovazioni si riscontrano non tanto nel Consiglio di Stato, ma nei Tribunali Regionali, i quali riconoscono che dalla costituzionalizzazione del principio in esame discende il riconoscimento della legittimazione dei singoli a sindacare in sede giurisdizionale l’esercizio della funzione amministrativa, senza che sia necessaria l’intermediazione di alcun ente portatore di interessi generali.
I Regolamenti per la gestione condivisa dei beni comuni e la Città di Torino
L’interesse qualificato alla tutela dei beni comuni richiede un riconoscimento espresso delle pretese partecipative dei singoli: ciò è avvenuto con il Regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni, strumento giuridico sperimentato in più di 200 Comuni italiani, e che ha permesso alla comunità di “riappropriarsi” dei beni comuni.
Con tali Regolamenti si è dato vita al c.d. “Patto di collaborazione”, atto amministrativo di natura non autoritativo idoneo a regolare la collaborazione tra Comune e cittadini per la cura, la rigenerazione e la gestione dei beni comuni.
Accanto ad esso, nella città di Torino sono stati introdotti gli usi civici e collettivi urbani e le gestioni collettive urbane, così normativizzando le pratiche di auto-governo presenti da anni in città.
Per concludere, la novità del modello dell’Amministrazione condivisa risiede nel fatto che i Regolamenti determinano un fenomeno c.d. di funzionalizzazione inversa, nel senso che sono ora gli apparati amministrativi (serventi) ad essere funzionalizzati dai cittadini attivi, e non viceversa.