Il Comune di Padova si aggiunge alla lunga lista dei comuni italiani che hanno adottato un proprio Regolamento dei beni comuni. Vale la pena segnalarlo perché si caratterizza per alcuni tratti molto originali e può – a buon diritto – essere iscritto alla categoria dei Regolamenti di seconda generazione, quella cioè che sperimenta l’integrazione di strumenti diversi.
La novità principale
La principale novità del Regolamento è quella di prevedere la possibilità che la collaborazione realizzata attraverso l’oramai classico Patto di collaborazione (art. 6) si tramuti in una gestione autorganizzata delle comunità di riferimento con lo strumento della dichiarazione di uso civico e collettivo (art. 7). Più precisamente Padova prevede che, se si realizzano alcune condizioni che sono determinate dalla volontà del gruppo che ha stipulato inizialmente il Patto di prendersi autonomamente in gestione il bene o lo spazio continuando a garantirne l’uso indiviso, quell’esperienza possa tramutarsi in una forma di autogestione regolata dalla dichiarazione di uso civico e collettivo da parte di una collettività riunita in assemblea, che è definita dal Regolamento «comunità di riferimento». La dichiarazione di uso civico e collettivo può anche prevedere una diversa individuazione del bene di autogestione oppure nuove finalizzazioni del bene inizialmente oggetto del Patto di collaborazione, ma in questo caso la determina di approvazione del dirigente comunale, necessaria alla validità della dichiarazione, è subordinata alla valutazione della Giunta comunale.
Si evidenzia così che il Regolamento di Padova, mettendosi in scia anche con altre esperienze che si stanno diffondendo, ibrida i due principali strumenti che sui territori si sono diffusi in questi anni: il Patto di collaborazione e la dichiarazione di uso civico e collettivo. Tale tentativo appare apprezzabile perché in questo modo il Regolamento prova a inserire in un quadro di legittimità esperienze che valorizzano i beni comuni ma che sono fondati su presupposti diversi. Mentre, infatti, i Patti di collaborazione sono certamente lo strumento a maggior portata di mano per una categoria molto ampia ed eterogenea di soggetti, le forme di autogestione implicano una maggiore omogeneità delle collettività che se ne fanno carico in termini di idealità che le animano. Non tutti i Patti di collaborazione possono essere trasformati in forme di autogestione come quelle appena descritte, ma – nella misura in cui quelle condizioni si determinano – possono avere anche quell’esito. Allo stesso tempo l’impianto del Regolamento conferma la centralità del Patto di collaborazione nelle esperienze di valorizzazione dei beni comuni. È da avvisare, infatti, che il Patto di collaborazione è comunque la prima occasione necessaria di valorizzazione dei beni comuni e può realizzarsi su tutti i beni, compresi quelli di dimensione e valore significativo.
Altri profili di originalità
Se si confronta il regolamento di Padova con quelli più comuni già diffusi si possono osservare altri spunti di originalità. Innanzitutto, si può notare che le disposizioni dedicate all’organizzazione comunale sono molto contenute. Si prevede, fondamentalmente, solo l’istituzione di un’unità organizzativa dedicata alla collaborazione per i beni comuni, di cui però non è precisata la collocazione, riservando a un Vademecum da approvare i dettagli procedimentali che verranno seguiti (art. 8). Quindi, gli aspetti procedimentali sono affidati a una delibera – si suppone dirigenziale – successiva. Evidentemente il comune rinvia il dettaglio di questi aspetti, probabilmente allo scopo di avere un’idea più precisa dopo le iniziali sperimentazioni. Accanto a questa unità organizzativa si prevedono anche Consulte di quartiere, che sono organismi di partecipazione popolare e che sono consultate per le scelte che riguardano i beni comuni di loro interesse, e il Consiglio civico (art. 9), composto da un rappresentante delle Consulte di quartiere e istituito con delibera della Giunta comunale, che ha il compito di esprimere pareri non vincolanti su Patti di collaborazione e dichiarazioni di uso civico e collettivo, nonché osservazioni sulla redditività civica delle esperienze in fase di monitoraggio.
Sotto il profilo degli impegni reciproci, oltre a quelli definiti nei Patti e nelle dichiarazioni e oltre a quelli più ricorrenti nei Regolamenti di questa natura, si evidenzia che il Comune di Padova non esclude l’impegno attivo anche di risorse economiche per la realizzazione di queste progettualità anche se queste non possono mai avere come destinatari i singoli cittadini, né retribuirne il lavoro (art. 10, c. 1). Il comune, poi, provvede alla stipula delle polizze assicurative (art. 15, c. 2) e richiede l’individuazione di una persona di riferimento, anche nel caso delle esperienze di autogestione, per la gestione dei profili collegati ai rischi (art. 14, c. 3). Inoltre, questo Regolamento più di altri è propenso ad accettare lo svolgimento di attività economiche nella realizzazione dei Patti di collaborazione (art. 6, c. 4, lett. c) e nelle dichiarazioni di uso civico e collettivo, anche se devono restare accessorie e destinate solo all’autofinanziamento (art. 12, c. 2).
L’inquadramento e il campo di applicazione del Regolamento
Si segnalano elementi di novità anche sul piano degli aspetti generali del Regolamento. In primo luogo si sottolinea come il Regolamento si incardina totalmente nell’attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale come richiamato dall’art. 1, c. 2, evocando a tal fine l’Amministrazione condivisa (art. 2, c. 1, lett. f) e richiama esplicitamente l’inquadramento dei Patti di collaborazione nell’art. 11, legge n. 241 del 1990, come ha fatto il regolamento di Verona, risolvendo così un’ambiguità di fondo che avevano i primi Regolamenti comunali approvati in Italia. Inoltre, il Regolamento si preoccupa di stabilire un coordinamento con la disciplina del Terzo settore, stabilendo nell’art. 1, cc. 3 e 5, che il Regolamento trova attuazione nelle forme di collaborazione che non rientrano tra quelle per cui si applica il codice del Terzo settore. In qualche modo, si tratta di una sottolineatura che appare obbligata, ma allo stesso tempo è utile, sia perché dimostra consapevolezza del tema da parte dell’amministrazione, sia perché gli spazi ulteriori di azione, oltre il codice del Terzo settore, non sono per nulla irrilevanti.
Sul piano delle definizioni risulta interessante notare che il Regolamento considera beni comuni anche quelli confiscati alla criminalità organizzata e, comunque, definisce tali quelli che cittadini e amministrazione «riconoscono funzionali al benessere della comunità e dei suoi membri, all’esercizio dei diritti fondamentali della persona e all’interesse delle generazioni future». I beni comuni, tra cui sono compresi anche quelli privati inutilizzati con l’assenso e la partecipazione del proprietario, sono però individuati con un atto di ricognizione della Giunta comunale. Tuttavia, l’art. 5 consente sia la possibilità che i cittadini possano individuarne altri, fermo restando in questo caso il preventivo giudizio di idoneità della Giunta, sia l’attivazione di una partecipazione popolare per favorire il dibattito pubblico sull’individuazione dei beni comuni a cui possono prendere parte le Consulte di quartiere, a cui può spettare anche il potere di iniziativa di tali procedure.
Tra i cittadini attivi, invece, oltre a comprendere le formazioni sociali informali e anche quelle imprenditoriali (ma non aventi fini di lucro), si includono pure le istituzioni scolastiche e tutti coloro che si attivano per il comune indipendentemente dalla residenza come studenti, lavoratori e volontari.
Conclusioni
In conclusione, il regolamento di Padova suscita grande curiosità per avere avanzato molti elementi innovativi. La parte più difficile, naturalmente, viene ora, anche perché non sono pochi gli aspetti rinviati alla fase esecutiva, ma l’auspicio è che la comunità padovana trovi in questo strumento un’efficace arma per realizzare il modello dell’Amministrazione condivisa.
Foto di copertina: Stefano Segato su Unsplash
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