Tre caratteristiche che contribuirebbero a rendere il PNRR più resiliente e partecipato

Il PNRR individua 6 missioni e 16 temi e li raggruppa in relative politiche, mentre la vita li integra tutti: questa è la ragione per aprire la partecipazione a tutte le persone, tenendo alta l’attenzione affinché anche le risorse “non umane” siano rappresentate. Nel nome dell’emergenza, al contrario, la scrittura del piano non è stata partecipata. Questo è un grave problema all’origine, riassumibile nella sgradevole sensazione di vecchia politica che non si pone allo stesso livello di coloro che restano tradizionalmente esclusi dalle opportunità né di ciò che non può gridare allo spreco, come il suolo.
Da molto tempo prima della pandemia la società chiede invece rapporti più paritari a chi fa le politiche e la natura sta lanciando a sua volta segnali chiarissimi. Bisogna correggere il tiro, anche nella direzione della sussidiarietà orizzontale, e subito. Poiché la parola partecipazione viene usata con le accezioni più diverse, chiariamo qui come la intendiamo. Un PNRR partecipato ha almeno tre caratteristiche che un PNRR non partecipato non ha.

Il PNRR va comunicato meglio

La prima azione partecipativa necessaria riguarda la comunicazione del piano, cosa ben diversa dalla semplice informazione lanciata a senso unico dal governo ai cittadini, lasciandoli nell’impossibilità di dare ritorni. Una cosa è ad esempio lanciare il tema della “innovazione” preoccupandosi di raccogliere feedback diversi (“noi non abbiamo neanche capito di che cosa stiamo parlando”, “noi per innovazione intendiamo qualcosa di diverso”, “per noi la definizione data dal piano è perfetta”) e un’altra è la mera informazione (“uno dei 16 temi del piano è l’innovazione”). Poiché per il PNRR si stanno usando risorse comuni, tutte e tutti, adulti e bambini, devono poter capire, per poter interagire: il piano è ricco di concetti ambiziosi e complessi. A: non si può dare per scontata la nostra alfabetizzazione a proposito (“chi sa cosa vuol dire innovazione?”); B: non possiamo perdere l’occasione di dialogare sui diversi significati, che i concetti incarnano (“per noi innovazione è innovazione amministrativa”, “noi intendiamo innovazione tecnologica”, “noi lavoriamo da anni su esempi di innovazione sociale e ambientale”, “in questo territorio il brodo di cultura dell’innovazione è diverso”).

Perché non chiedere agli italiani se vogliono contribuire al piano?

La cura della comunicazione non è importante di per sé, ma è fondamentale perché costituisce la base del possibile contributo attivo dei singoli, dei gruppi informali, delle associazioni, delle imprese sociali, degli ordini professionali, dei soggetti profit piccoli, medi e grandi. Troppo spesso la partita del PNRR viene descritta come una partita di sussidiarietà verticale: fondi dall’Europa, agli Stati, alle Regioni, quindi ai sindaci. Labsus sostiene da tempo che a nessun livello esistono responsabili pubblici capaci di far fronte da soli alla complessità. La sfida pandemica e le altre che dobbiamo e dovremo affrontare non possono essere vinte senza una cooperazione tra i diversi soggetti, compresi quelli che il dibattito internazionale sulla cura dei beni comuni chiama “gli invisibili”, ovvero il mondo vegetale e animale. Al momento il PNRR ha a questo proposito un progetto (troppo) implicito nella missione “rivoluzione verde e transizione ecologica” e all’interno della variegata galleria di soggetti sceglie di privilegiare le pubbliche amministrazioni da un lato e le imprese dall’altro. Per trovare un riferimento a famiglie, comunità e Terzo settore bisogna cercare dentro alla quinta missione, “coesione e inclusione”, come se rispetto agli altri pilastri del piano – “sanità”, “istruzione e ricerca”, “cultura, turismo, innovazione e digitalizzazione” e ancora “rivoluzione verde e transizione ecologica” – la passione e la competenza di milioni di italiane e italiani attivi e pronti a contribuire fosse stata finora marginale! I commoners di tutto il mondo denunciano da tempo il rischio di continuare a impostare le politiche in questo modo, perché così facendo non solo ci si dimentica di tutte le energie civiche che non sono etichettabili come pubbliche né come private, ma si perde di vista il tema dell’uso condiviso dei beni comuni, assai più importante della proprietà degli stessi. A livello nazionale, Labsus da più di 15 anni raccoglie storie di attivismo al servizio dell’arte di amministrare: questo è il momento in cui le occasioni che si aprono alle pubbliche amministrazioni e alle imprese non possono non rappresentare delle chance anche per le associazioni formali e informali che in moltissimi casi hanno aperto faticosamente la strada a politiche sperimentali, testando processi d’avanguardia, accettando sfide apparentemente perse.

Sviluppare capacità attraverso il PNRR

A leggere nel dettaglio l’intero piano, il suo doppio titolo pare assai più sviluppato nella dimensione economico-finanziaria di “ripresa” e di hardware piuttosto che in quella socio-economica di “resilienza” e di software. Così, mentre gli stimoli sul piano materiale risultano piuttosto immediati, a partire dai ricchi elenchi delle possibili nuove infrastrutture di cui dotare l’Italia, molto più difficile è immaginare quali capacità potranno sviluppare gli abitanti grazie al piano. Certamente l’empowerment lavorativo è contemplato dal PNRR, nel breve periodo: non è difficile immaginare che saranno anni di intenso lavoro per chi pianifica, progetta e realizza le opere.
A partire dall’esperienza che sto vivendo in questo semestre di didattica al Politecnico di Torino come docente di sociologia dell’ambiente e del territorio, insieme a colleghe di pianificazione urbanistica e progettazione architettonica, posso testimoniare che, quando i gruppi di studentesse e studenti si mettono al lavoro sulle “schede di PNRR” che riguardano precisi ambiti urbani e territoriali attraverso cui si concretizza il piano, il loro problema non è certo quello di cercare di rispondere agli obiettivi di infrastrutturazione della città e del territorio. Alle pubbliche amministrazioni locali, si sa, è stato esplicitamente chiesto di ritirare fuori dai cassetti piani e progetti: non guasterebbe allargare la richiesta, parallelamente e quando possibile, alle analisi quantitative e qualitative dei contesti sociali.

PNRR: cosa cambia rispetto al piano Fanfani?

Per il nostro Paese questa esigenza diffusa di progetto è davvero epocale, perciò dovremmo condividere l’esigenza che ci fossero delle evidenti differenze tra l’attuazione del PNRR oggi e quella del piano Fanfani lanciato alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso: anch’esso con prospettiva di sette anni, anch’esso rivolto a tutto il territorio nazionale, anch’esso con lo scopo di rispondere ad esigenze materiali (anzi, la prima delle esigenze, quella di avere una casa, cui peraltro il PNRR non ha scelto di dedicare una missione, né un tema). Son passati infatti tre quarti di secolo dal piano INA-casa, cosiddetto piano Fanfani, che certamente ebbe ricadute in termini di Pil simili a quelle che il PNRR auspica di avere. Ma restare affezionati al paradigma dell’edilizia come volano dell’economia è antistorico, perché questi decenni hanno portato alla nascita e alla crescita, tra le altre cose:

  • della società della cura, intesa non solo come cura dei processi di argomentazione pubblica delle decisioni sulle trasformazioni sociali e spaziali, ma anche della cura intesa come azione collaborativa diretta;
  • di una coscienza ambientale diffusa, per cui il consumo di risorse finite (terra, acqua, aria, materiali per l’edilizia come per le nuove tecnologie eccetera) è per molti cittadini un’emergenza per le agende politiche a tutti i livelli, al pari/ancor più della decrescita economica;
  • di paradigmi democratici nuovi, quale l’Amministrazione condivisa dei beni comuni, che portano l’attenzione sulla possibilità e l’opportunità di co-gestire le risorse comuni in un’alleanza orizzontale tra soggetti pubblici, privati, del terzo settore, dei gruppi informali e dei singoli individui attivi.

Questi punti, insieme ad altri che molti commentatori del PNRR hanno evidenziato, devono fare la differenza. Quando il Presidente della Repubblica ha convocato i sindaci per ribadire loro la grande responsabilità che assumono nell’attuazione di questo piano storico, è apparso ancora più evidente il dilemma storico tra il livello locale e quello dei soggetti globali/internazionali/statali: rifiutare il nuovo paradigma della sussidiarietà orizzontale significa continuare a perpetrare un gioco delle parti in cui dall’alto gli obiettivi di crescita economica continuano a essere perseguiti nel più consolidato dei modi, mentre le alternative dal basso non arrivano mai a proporre una vera alternativa di sistema. Nella logica della pattuizione – soprattutto quando iniziano a entrare in gioco anche i livelli regionali e le unioni di comuni, oltre alle singole municipalità – l’incrocio tra politiche dall’alto ed esperienze dal basso è sempre perseguito, insieme alla multiattorialità e con la regola basilare dell’apertura a chiunque voglia contribuire. Abbiamo notizia dei primi Patti di collaborazione che in Italia stanno iniziando a confrontarsi con le sfide del PNRR, e ci fa piacere che questa esigenza di partecipazione si estenda nel nord-ovest, anche grazie all’iniziativa di una fondazione di origine bancaria, sino a un comune di media dimensione nella Sicilia occidentale.