Sono sempre più comuni e diffuse infatti pratiche auto-organizzate e spontanee di riuso del patrimonio urbano, per cui uno spazio aperto, un edificio, anche solo un tetto, possono funzionare da catalizzatori di interessi, aspirazioni, progetti, contribuendo ad aggregare comunità  eterogenee di nuovi utilizzatori, di cittadini

Ex-scuole, caserme, fabbriche e capannoni industriali dismessi, cinema e teatri chiusi, stazioni, negozi, abitazioni, uffici vuoti, monasteri abbandonati, ” paesi fantasma ” … La lista dei luoghi dimenticati delle città  italiane è lunghissima, e questi sono solo alcuni dei ” pieni ” urbani oggi lasciati ” vuoti ” . Si contano infatti oltre sei milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati in tutta Italia[1], un patrimonio sia pubblico che   privato, che di fatto costituisce la principale infrastruttura collettiva del Paese. Il ” Regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani ” dedica 3 articoli alla cura e rigenerazione degli spazi pubblici ed altri 3 più specifici alla cura e rigenerazione degli edifici. Sono pochi articoli ma importantissimi, perchè potrebbero gettare le basi normative per un cambiamento   radicale del modo di produrre la città  pubblica e più in generale di pensare alle politiche urbane, a partire dagli spazi urbani come integratori naturali di cittadinanze, di capacità  progettuali e risorse inaspettate.

La forma della città 

La città  post-industriale ed i profondi mutamenti nell’organizzazione sociale ed economica del nostro paese hanno lasciato un territorio denso di architetture abbandonate: grandi contenitori urbani, come le ex aree industriali del secondo novecento ormai dismesse, ma anche spazi più minuti, frammenti nel tessuto urbano, dimenticati e lasciati alla deriva. Si tratta di spazi in attesa di una nuova identità , di un nuovo nome, luoghi spesso contesi e stretti tra la complessità  dei processi decisionali delle amministrazioni pubbliche e la rigidità  degli strumenti urbanistici, e le attese speculative del mercato. Le città  italiane sono ricche di queste risorse sottratte alla collettività . Beni urbani tangibili, visibili, ingombranti. Talmente ingombranti da essere un costo per l’amministrazione pubblica che nella maggior parte dei casi cerca di liberarsene in fretta, elaborando complicati – ed improbabili – piani di valorizzazione e vendita; ingombranti per gli operatori privati, sempre più restii all’investimento in un mercato oramai saturo di offerta immobiliare.

Eppure, sono cosìingombranti da saltare rapidamente agli occhi dei cittadini attivi come l’unica risorsa lìpronta, a disposizione di tutti, da cui ripartire. Sono sempre più comuni e diffuse infatti pratiche auto-organizzate e spontanee di riuso del patrimonio urbano, per cui uno spazio aperto, un edificio, anche solo un tetto, possono funzionare da catalizzatori di interessi, aspirazioni, progetti, contribuendo ad aggregare comunità  eterogenee di nuovi utilizzatori, di cittadini.

Esperienze di riuso e cura degli spazi e degli edifici

” Ogni città  riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone ” , spiega Italo Calvino ne Le città  Invisibili, ed in effetti al deserto di politiche urbane ed investimenti si oppone un nuovo modello di forma urbana, resiliente, dinamica ed imprevedibile. Nascono cosìcase del quartiere, orti di comunità  sui tetti, spazi per co-working, sartorie sociali, collettivi artistici, progetti culturali, residenze temporanee… Queste sono solo alcuni esempi dei progetti innovativi nel nostro Paese. Solo a Milano l’associazione Temporiuso[2] ha mappato una ventina di best pratices di riuso temporaneo e cura condivisa di edifici ed aree verdi, a Torino la ricerca Re-use[3] ne individua e spiega altrettanti, mentre a L’Aquila, con gli stessi obiettivi, è in corso il progetto ReUSEs. Ne derivano fotografie di città , o meglio di cittadini, coraggiosi e creativi, spesso anche molto giovani, che scelgono in modo autonomo di riprogettare il proprio futuro e il futuro di questi spazi. E lo fanno lavorando su tre formule principali di riuso dello spazio, spesso integrate tra di loro. La prima riguarda progetti di valenza culturale ed artistica, che combinano attività  divulgative ed educative con attività  più produttive nell’ambito della musica e delle arti visive e performative. La seconda formula coincide con l’insediamento di progetti di nuovo welfare, che, proprio attraverso il rapporto diretto con il territorio urbano in cui nascono, definiscono target, azioni e potenziali risorse, riuscendo a lavorare per aggregazione di bisogni sociali e servizi. La terza può essere ascrivibile ai nuovi luoghi del lavoro come i co-working, dove trovano luogo le start-up tecnologiche, i   fab-lab, spazi di ricerca e invenzione, dove la prossimità  e la facile accessibilità  favoriscono alleanze produttive virtuose tra soggetti diversi.

Tre profili comuni

Si possono individuare almeno tre aspetti interessanti che accomunano tutti questi luoghi. Il primo è il rapporto intrinseco tra lo spazio e la comunità  di riferimento, che ci permette di riconoscerli come veri e propri beni comuni. Questa relazione valica nella pratica sia le caratteristiche di proprietà  del bene -pubblico/privato-, che le tradizionali categorie di identificazione dei gruppi sociali -comunità  di interesse, di valore, ecc.. – Nella maggior parte dei casi si tratta infatti di spazi ibridi che funzionano da ” trading zone ” [4] (Galison, 1997), ovvero contesti in cui l’azione collettiva e la cooperazione tra attori diversi – anche con sistemi di valori, di interessi e significato diversi – è possibile perchè avviene proprio dentro quegli spazi o intorno agli stessi; spazi dei quali ci si vuole prendere cura, nei quali si può immaginare e progettare soluzioni volte a migliorare   la qualità  della vita urbana.

Il secondo aspetto è che questi luoghi sono il prodotto di relazioni innovative tra gli attori sociali, che in modo creativo aggregano attività  di volontariato, servizio sociale, formazione, produzione culturale, con attività  commerciali ed imprenditoriali che ne garantiscano la sostenibilità  economica, innescando al tempo stesso micro-economie virtuose e diventando veri e propri fattori di sviluppo locale.

Il terzo aspetto è il carattere di imprevedibilità  di queste esperienze di riuso. La maggior parte dei progetti non sono nati in risposta a specifiche call pubbliche, ma dall’intelligenza collettiva della società , da quella creatività  generativa – una capacità  negativa, direbbe Lanzara – che riesce a trovare una strada nell’incertezza, sfuggendo del tutto alla logica della programmazione urbanistica ed economica delle amministrazioni.  Il successo di queste micro-iniziative testimonia come saperi e abilità  necessarie ad affrontare i problemi pubblici possano trovarsi anche fuori dalle istituzioni deputate a questo compito.

L’amministratore diventa enabler

Alla luce di questa promettente realtà  i principi dell’amministrazione condivisa sono più che coerenti. Anzi, possono diventare quotidianità . Qual’è il ruolo che può giocare il pubblico dentro questa sfida? L’adozione del Regolamento in questa partita diventa l’occasione per le amministrazioni di agire da enabler [5]  di processi che devono mantenere quel carattere di spontaneità  ed imprevedibilità  per essere efficaci. Lavorare come enabler vuol dire ” conferire il compito e capacitare ” gli attori sociali, creando le condizioni necessarie, le infrastrutture adatte a supportare sinergie di riuso e produzione di beni e servizi collettivi: ad esempio garantendo luoghi in cui far incontrare ed interagire i cittadini attivi, tavoli aperti per la scrittura dei patti, in cui discutere e costruire progetti, mettendo in campo competenze tecniche, risorse, reti, idee… Gli amministratori-enabler non sono arbitri, ma parte attiva di questi processi. A loro spetta anche l’arduo compito di apprendere da queste pratiche ed aggiornare la programmazione pubblica, mettendo in risorsa quelle competenze e quei progetti che trasformando i ” vuoti ”   in ” pieni ”   producono nei fatti una nuova città  pubblica.


[1]    Per maggiori approfondimenti si consiglia di consultare il sito www.riusiamolitalia.it e la pubblicazione Campagnoli   G., (2014), Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start-up culturali e sociali, Gruppo 24 Ore, Milano

[2]  Temporiuso è un’associazione culturale e un progetto di ricerca del   Politecnico di Milano, che dal 2008 si occupa di mappare e studiare i fenomeni del riuso temporaneo delle aree urbane dismesse e degli edifici abbandonati nel territorio milanese. www.temporiuso.org. Per maggiori approfondimenti si rimanda alla pubblicazione Inti I., Cantaluppi G., Persichino M., Temporiuso. Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono, in Italia. AltraEconomia Edizioni.

 [3]  Re-Use è un progetto di ricerca coordinato da Paolo Cottino e Paolo Zeppetella, per il Politecnico di Milano e CNR. http://www.urban-reuse.eu/   . Per maggiori approfondimenti sugli esiti della ricerca si rimanda a  Cottino P., Zeppetella P,, (2009), Creatività , sfera pubblica e uso sociale degli spazi, Forme di   sussidiarietà  orizzontale per   la produzione di servizi non convenzionali , Fondazione   Cittalia, ANCI ricerche, Roma 2009

[4]  Il concetto di trading zone è stato sviluppato da Peter Galison. Si rimanda alla pubblicazione Galison P., (1997), Image and Logic, University of Chicago Press.

[5]  Il concetto di ” enabler ” applicato al ruolo dell’amministrazione pubblica è stato in primo luogo introdotto da Balducci (si rimanda alla pubblicazione Balducci A. (2000), ” Le nuove politiche della governance urbana ” , in Territorio , n °13, pp. 7-15) e successivamente approfondito da Paolo Cottino e Paolo Zeppetella, in particolare nell’ambito delle politiche di riuso degli edifici urbani (si rimanda a Cottino P., Zeppetella P,, (2009), Creatività , sfera pubblica e uso sociale degli spazi, Forme di   sussidiarietà  orizzontale per   la produzione di servizi non convenzionali , Fondazione   Cittalia, ANCI ricerche, Roma 2009)