Nella collana "Itinerari" de Il Mulino è apparso il nuovo contributo di Nicola Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Bologna, 26.

Il testo non si segnala soltanto per l’approfondimento chiaro ed aggiornato di alcuni dei profili più attuali e complessi del diritto ecclesiastico italiano (definizione del principio di laicità e del rapporto tra sfera pubblica e simboli religiosi, individuazione di soluzioni ragionevoli in ordine a casi sintomatici di conflitto tra ordinamento secolare e ordinamenti e/o tradizioni culturali e religiose, riflessione sull’attuale contenuto e sulla dimensione operativa delle libertà "religiose" di professione e di espressione del culto), bensì si distingue anche per il tentativo di approcciare simili profili attraverso la lente del principio di sussidiarietà e delle sue possibili declinazioni, sia sul piano teorico sia sul piano pratico.

A quest’ultimo tema Colaianni dedica un intero capitolo, che si apre, significativamente, nella consapevolezza che "la relazione tra eguaglianza e diversità, tra Stato e gruppi cultural-religiosi non è soltanto una actio finium regundorum", e ciò per la ragione che "nell’odierno Stato costituzionale di diritto, uno Stato pluralistico che chiama tutti i cittadini e le formazioni sociali a partecipare alla sovranità, quella relazione è fondamentalmente anche ‘concorso’".

La chiave interpretativa che in tal modo viene dichiaratamente perseguita trae le proprie mosse dall’acquisizione che l’affermazione costituzionale del principio di sussidiarietà orizzontale comporta inevitabilmente l’arretramento delle forme statiche e rigide della sovranità statale a favore dell’instaurazione di organizzazioni reticolari, basate sulla "collaborazione-integrazione di soggetti distinti" ed estranee, in quanto tali, dalla "figura organizzativa gerarchica, basata su un’autorità superiore".

La conseguenza rilevante, nella materia specificamente trattata dall’Autore, è presto detta: la riflessione su simili mutazioni non può che motivare un diverso svolgimento dei problemi del multiculturalismo e dell’apparente incapacità della cultura giuridica nazionale (ma, potremmo dire, occidentale in genere) ad assorbire e gestire in modo condiviso e satisfattivo ogni possibile conflitto.

Anzi, per Colaianni tale riflessione, in quanto finalizzata a promuovere forme di leale collaborazione e di condivisione convenzionale, lungi dall’annullare qualsiasi differenza tra ordine religioso ed ordine secolare (eventualmente alludendo ad un concorso paritario tra le formazioni sociali che sono espressive del primo e gli apparati che agiscono in nome del secondo), invita a riconsiderarne il ruolo centrale, in stretta armonia con l’affermazione del principio di laicità.

In buona sostanza, il paradigma della sussidiarietà orizzontale potrebbe permettere agli interpreti e agli operatori di rivedere la portata generale di uno dei connotati più tipici della disciplina nazionale delle relazioni tra Repubblica e confessioni religiose, ossia del metodo bilaterale e del riconoscimento, in esso implicito, di competenze reciprocamente separate e concorrenti. Il criterio tradizionale, cioè, resterebbe inalterato, ma ciò solo in linea di principio, poiché esso, a fronte del principio di sussidiarietà, "sembra destinato a svolgere un ruolo recessivo"; tale principio, infatti, "lascia scorgere, in prospettiva, un sistema di generale, e nin limitata ai rapporti trattati da concordato e intese, concorrenza delle competenze tra Stato e confessioni religiose". E’ chiaro che questa circostanza "renderebbe tendenzialmente superfluo un trasferimento formale di competenze o l’individuazione formale di nuovi settori di collaborazione, sul presupposto di competenze esclusive, tra pubblico e privato".

Il risultato è, pertanto, sconvolgente: "la sussidiarietà rende tendenzialmente superflui i patti".

Ciò nonostante esistono alcuni limiti all’estensione di tali acquisizioni: in primo luogo la collaborazione sussidiaria non potrà riguardare settori ancora rimessi alla formale titolarità della pubblica amministrazione; quindi si dovrà accertare la persistenza della natura privata della formazione sociale interessata; dovrà inoltre ribadirsi che la competenza finale a svolgere, anche in via sostitutiva, l’attività è sempre dello Stato; infine, i pubblici poteri non potranno stringere rapporti solo con la confessione maggioritaria (pena la violazione del principio di uguaglianza).

Significativo, peraltro, è anche il monito conclusivo dell’Autore: comunque sia, occorre sempre ricordare che il significato repubblicano della sussidiarietà non va confuso con il significato eventualmente confessionale del medesimo termine, e che, parimenti, il paradigma soclidaristico e collaborativo da essa agevolato non comporta mai la rinuncia alle regole e ai principi, ma ne consolida la consapevolezza collettiva e societaria in un meccanismo di partecipazione procedimentalizzata